L’alveare assopito, di Angela Caccia, edito da Fara e prefato da Davide Zizza
L'alveare assopito – Angela Caccia – Fara – Pagg. 72 – ISBN 978-88-9293-070-4 – Euro 10,00
Le crepe per noi leggere
I colori e le sfumature della raccolta L'alveare assopito di Angela Caccia – colori sono i sentimenti, sfumature gli stati d'animo – conservano un respiro intimo e un modo di compenetrare la realtà, osservandola, cogliendola nei suoi squarci rivelatori. Davanti a noi si svolge, accade la realtà nella sua dimensione “altra” ela poetessa si cala nell'osservazione, nell'indagine di essa, per carpirne i segnali. Senza alcun dubbio è questa la prima discreta ma potente avvisaglia della sua scrittura, rappresentata proprio da una discesa, una lama che sfibra il foglio, la pagina quale metafora del vivere indistinto e quotidiano dove s'insinua il trauma del colore nero, dell'inchiostro nel suo duplice ruolo, ovverosia da una parte rimettere in discussione l'ordine consueto delle cose e dall'altra operare un gesto salvifico nella comprensione di quanto ci viene mostrato, e del trauma stesso.
Perché la scrittura è ferita, ed è tale affinché possa trarne dei frutti. Necessari. La raccolta è pervasa da una spiritualità ben nota ai suoi lettori. Senza prescindere da una visione cristiana, quello di Caccia è un panteismo poetico,
nel senso “non-teistico della divinità”, per dirla con M. Levine; è uno sguardo panoramico da cui riusciamo a individuare lo spirito universale che si muove, dicevamo poc'anzi, per colori e sfumature, nella realtà come nelle persone.
Ecco allora che le sue poesie – dovremmo però citare anche le precedenti raccolte, tra cui Nel fruscio feroce degli ulivi, Il tocco abarico del dubbio, rivelatrici di questo spirito dinamico capace di soffiare nell'orecchio della coscienza – non vanno lette come scenografie o pitture nate nel luogo rassicurante della contemplazione. Qui ogni atto poetico, movimento, descrizione, dove scopriamo «l'infallibile regia della natura» e umani tentativi di approdo ai giorni, dichiara una partecipazione, non solo a sé stessa ma pure all'alterità. Se scrivere è morire a sé stessi, generare un altro sé; se scrivere
è una deviazione dall'io, allora quell'altro sé s'accampa in ognuno di noi e ci parla con una voce, nostra e tuttavia diversa, distante, creando crepe profonde («Io / crepa di tempo» si definisce Caccia) nel grigiore dell'agire diurno,
nell'incarnato del proprio essere («la difficoltà di essere rosa», appunto vita incarnata che nel sentire sa, ottiene conoscenza). La crepa che la poetessa rappresenta, anzi è, è quella di ognuno, per cui l'altro, ci insegna Lévinas, ci
riguarda. Affidandoci a un ossimoro, la crepa si esprime, manifestandosi sia sul piano dello stile sia dei contenuti, con una densa lievità, in una versificazione autentica e luminosa, le cui immagini – dovessimo applicarle per analogia
uno stile pittorico – sono dei radiosissimi acquerelli.
Va detto: la poesia di Caccia si estende per oltre un trentennio, un trentennio in cui la sua dizione si è affidata a equilibri forti e insieme sottili – perché interpretano l'esistenza nelle pieghe cosiddette meno note –, equilibri
meditati come i titoli dei libri appena citati in cui riconosciamo il segno di una coerenza stilistica che non teme la ripetizione. Si sente l'ascolto in ogni parola, si avverte l'aver visitato mondi poetici terreni ed elevati, nella sua armonia scopriamo una consonanza con la Yourcenar (Vous ne saurez jamais, «Tu non saprai giammai») e con Rilke («E hai fatto il mondo: E il mondo è grande/e come una parola che matura ancora nel silenzio»). E ancora la sua scrittura prefigura un ritorno, nel riproporre con disinvoltura argomenti a cui non sfugge nessuno – l'amore, la morte, il dolore – e si connatura come atto di coraggio nel rinnovare lo sguardo su questo mistero chiamato vita. Nella «pura vocazione all'assenza», nell'arte della sottrazione, utile per risparmiare spazio, per essere memori del bianco tuttavia necessario, si staglia la curva longilinea della crepa che, sebbene porti il peso di un'epifania, il fatto stesso di indicarla nella scrittura la rende per noi leggera.
Davide Zizza
