Ci sono momenti, di Alessandro Ramberti, edito da Fara e prefato da Luigino Bruni
Ci sono momenti - Alessandro Ramberti – Fara - Pagg. 128 -
ISBN 978-88-9293-151-0 - Euro 12,00
Prefazione
Tutto è reciprocità
La poesia non si introduce. Dopo averla incontrata si può solo provare a rispondere con altre parole, sempre più piccole, perché ogni eco è più
piccola della voce che la genera. Incarnazione, questa immensa e fragilissima parola, lega tra di loro questi versi capaci di entrare dentro l'anima – porvi la tenda, parlarle, poi restare. Perché l'incarnazione è un incontro tra fragilità e
infinito. I primi cristiani hanno provato a pensare un infinito che si limita dentro un corpo, e così hanno donato un confine allo Sconfinato – “Volevo dare / a Dio un confine / dirgli che sono / anch'io ricolmo // di aspirazioni illimitate”. La fragilità che Dio ha voluto per sé ponendo un limite alla sua sconfinatezza, ha generato esseri umani infiniti, il confine di Dio ha reso noi sconfinati. Perché se
è vero – e lo è – che “il vero dono / è smisurato”, Dio donandosi veramente e totalmente a noi (la Trinità dice che l'incarnazione del Logos è donazione intera e totale di tutto Dio) ci ha ricolmati di aspirazioni illimitate: “minimi siamo / nell'universo / eppure insieme / gli diamo il battito”.
L'incarnazione ci ha infinitizzati, e lo ha fatto in un attimo, esattamente quello nel quale Giovanni ha sognato che il Logos si è veramente fatto carne; sì,
perché il Logos incarnato fu prima sognato, e solo dopo Giovanni imparò a “leggere i sogni / come Daniele / come Giuseppe”, forse in una “notte che port[ò] in sogno le profezie”. Con il Logos di Dio che si incarna, lo “scoordinamento di Giobbe” entra nell'intimità di Dio e dell'universo. Anche YHWH diventa scoordinato e ci invia “un messaggio che abbraccia tutto”, anche
se da duemila anni stiamo provano a decifrarlo, certi che non ci riusciremo mai – solo il serpente e il suo logos piccolo poteva prometterne l'esegesi.
L'incarnazione del Logos spiega cosa significhi veramente l'immagine in noi degli Elohim, “ci ricorda la somiglianza”. Quando al culmine di mille anni di Patto, Legge e Profeti, Giovanni sognò il suo Prologo, da quel giorno il Vangelo ha iniziato a chiamarci con lo stesso nome di Dio. E così, quando preghiamo per lodare Dio in realtà è anche Dio che sta lodando e cantando noi. Tutto è reciprocità. Quando scriviamo poesie ed evochiamo, per finalmente destarli, Geremia, Elia, Hevel-Abele, Abramo o Giona, è Dio che sta scrivendo la sua
poesia usando quella parola che siamo noi. Diciamo i suoi nomi e un giorno sentiamo che è Dio che sta dicendo il nostro, e che nel nostro nome dice il
nome di tutti, il nome delle stelle e dell'universo intero. E mentre cerchiamo le parole e le note più belle e alte per lodare Dio stiamo anche imparando le note e le parole più belle ed alte per lodarci gli uni le altre – se è vero che gli uomini e le donne hanno usato le parole create per chi amavano per pregare Dio, è anche vero che Dio ha usato quelle parole d'amore per parlare di noi.
La poesia è allora Dio che ci dona le sue parole perché noi possiamo dircele reciprocamente ogni giorno. E mentre ci dice, il Logos si fa di nuovo carne. Noi “come Giobbe restiamo muti nel faccia a faccia”, e poi impariamo che quel mutismo, lo stesso di Ezechiele e di Zaccaria, genera nuove parole teofore. Ci ritroviamo muti di un Dio, che, all'improvviso, inizia a parlare poesia. Poeticamente abita Dio su questa terra. Noi non ce ne accorgiamo, non lo sappiamo, ma non avremmo poesie senza teofanie nell'anima. E lì, forse soltanto lì, il poeta può finalmente cantare: “so che vivo, e senza confini”.
Luigino Bruni
