Lolita, di Vladimir Nabokov, edito da Adelphi e recensito da Katia Ciarrocch
Lolita – Vladimir Nabokov – Adelphi – Pagg. 395 – ISBN 9788845912542 – Euro 13,00
Quando
ho iniziato Lolita di Vladimir
Nabokov,
sapevo di avere tra le mani un romanzo controverso, ma non immaginavo
quanto sarebbe stato difficile attraversarlo, pagina dopo pagina. Non
per la scrittura – Nabokov è
un maestro del linguaggio, un incantatore di parole – ma per il
senso di disagio crescente che mi ha accompagnato per tutta la
lettura. È stato un libro che ho più volte pensato di abbandonare,
troppo denso, troppo disturbante, troppo… ambiguo. Eppure, alla
fine, ho capito che quella sensazione di spaesamento era proprio ciò
che l'autore voleva ottenere: costringere il lettore a guardare il
male non attraverso la condanna, ma attraverso il filtro seducente e
ingannevole della parola.
La
storia è ormai nota: Humbert, uomo colto e raffinato, si trasferisce
in America e sviluppa un'ossessione morbosa per Dolores Haze,
dodicenne ribattezzata da lui Lolita. Per starle vicino, ne sposa la
madre, Charlotte, e quando questa muore, prende in custodia la
bambina, trascinandola in un viaggio attraverso gli Stati Uniti che
è, in realtà, una prigionia mascherata da avventura. Attraverso la
sua narrazione, Humbert cerca di convincerci che Lolita sia complice,
che sia lei a sedurlo, ma Nabokov è troppo intelligente per
lasciarci cadere davvero nella trappola. Perché leggendo tra le
righe, osservando gli eventi da una prospettiva meno avvelenata dalla
voce del protagonista, la realtà emerge con chiarezza: Lolita non è
altro che una bambina abusata, e Humbert è il suo carnefice.
Ma
la genialità di Nabokov sta
proprio qui: non dipinge Humbert come un mostro tradizionale, bensì
come un uomo consapevole della propria ossessione, disperato nella
sua autodistruzione, intrappolato in un vortice di desiderio malato
che lo consuma. Il lettore si ritrova allora in una posizione
scomoda, quasi costretto a provare un barlume di empatia per un uomo
che, nella realtà, si dovrebbe solo condannare. Questo è il grande
inganno di Lolita: attraverso una prosa sublime, Nabokov ci porta
nella mente di un predatore e ci fa vedere il mondo con i suoi occhi,
rendendoci partecipi del suo dramma, senza però mai assolverlo.
Ci
si potrebbe chiedere se Humbert, a sua volta, sia una vittima.
Vittima della sua ossessione? Forse. Vittima di un trauma infantile
mai superato? Possibile. Ma tutto ciò basta a redimerlo? No. Perché
in questa storia c'è una sola vera vittima, ed è Lolita. Una
bambina che viene privata dell'infanzia, della libertà, della
possibilità di scegliere. E non importa quanto Humbert soffra, non
importa quanto si strugga nel suo dolore: il suo è un male
autoinflitto, mentre quello che ha inflitto a Lolita è
irreversibile.
Leggere Lolita è
stato come trovarsi davanti a uno specchio deformante: pensi di
guardare una cosa, ma poi, con il tempo, capisci che la verità è
un'altra. E la verità è che Nabokov non
ha scritto una storia d'amore, né una storia di redenzione. Ha
scritto una storia di manipolazione, di inganno, di abuso mascherato
da poesia. Eppure, nonostante tutto, Lolita resta un capolavoro,
perché è raro trovare un romanzo capace di smuovere così tanto chi
lo legge, di obbligarlo a riflettere, a provare disgusto, a
interrogarsi sul potere della narrazione e su come le parole possano
trasformare il male in qualcosa di apparentemente accettabile.
Alla
fine, quello che mi resta di Lolita non è tanto la figura di
Humbert, quanto quella di Dolores Haze. Una bambina che il mondo ha
conosciuto con un nome che non era il suo, una bambina che la
letteratura ha spesso frainteso, romanzato, distorto. Eppure, sotto
la patina delle parole di Humbert, sotto il gioco brillante e crudele
di Nabokov, c'è sempre stata lei: una vittima che nessuno ha mai
veramente ascoltato.
Katia Ciarrocchi
