La Vendemmia, di Sergio Menghi
La Vendemmia
di Sergio Menghi
Il terreno di Mergnano produceva un discreto vino, grazie a una vigna ben assolata ed alle due piantate nei campi denominati ‘li Maioli, li Funni e li Rotelli'. Coltivare la vite non era un compito semplice: richiedeva dedizione e conoscenze agronomiche, che mio zio Venanzio possedeva in abbondanza, avendo seguito anche corsi specifici.
La cura della vigna iniziava poco dopo la vendemmia, con la potatura degli alberi di acero e dei tralci di vite; i ‘sarmenti,' raccolti in fasci, avevano un utilizzo pratico: servivano ad accendere il fuoco ed a riscaldare il forno per la cottura del pane, un rito settimanale delle nostre famiglie.
Con l'arrivo della primavera, i tralci venivano piegati e sistemati sulla vigna e sui rami degli aceri, in attesa che la vite iniziasse a germogliare. Quando spuntavano le prime foglie, si procedeva ai trattamenti contro la peronospora, utilizzando la poltiglia bordolese, meglio conosciuta come ‘acqua ramata', a base di solfato di rame e calce idrata.
Era un lavoro che richiedeva attenzione e cura: le macchie sulle foglie, spia della malattia, erano da osservare con occhio vigile per decidere il momento giusto per un nuovo trattamento.
Nell'estate, le operazioni diventavano ancora più impegnative. Quando apparivano i primi grappoli, bisognava insufflare lo zolfo con una macchina da caricare sulle spalle. Ricordo come questa operazione fosse irritante per gli occhi: mio padre e mio zio indossavano occhiali protettivi, ma alla fine della giornata gli occhi erano sempre arrossati. Anche l'acqua ramata, distribuita con apposite macchinette di rame, richiedeva pazienza e precisione. Ho ancora quegli attrezzi, come memoria delle fatiche di famiglia.
Quando il caldo estivo diventava intenso, si passava alla ‘scamatura': un'operazione delicata in cui si eliminavano i tralci ingombranti per permettere al sole di raggiungere i grappoli. Qui la competenza era fondamentale: bisognava fare attenzione a non tagliare i tralci destinati a produrre frutto l'anno successivo eliminando i ‘nipoti', le diramazioni che avrebbero sviluppato eccessivamente la pianta, ostacolando la crescita e la maturazione dei frutti.
Finalmente, con l'arrivo di settembre inoltrato, si preparava la cantina per la vendemmia. Lavare e asciugare accuratamente le botti, mettere a bagno le ‘bigonce ‘– i grandi recipienti in legno per raccogliere l'uva – e controllare che non ci fossero perdite erano gesti rituali, ripetuti ogni anno con la stessa meticolosità.
La vendemmia, però, non era solo lavoro: aveva il sapore di una festa. Uomini e donne si dividevano i compiti in coppie. Gli uomini, armati di scale, salivano sugli alberi per tagliare le trecce con i grappoli, porgendole alle donne che, restando sotto la pianta, staccavano i frutti e li depositavano nei cesti, poi nelle bigonce. Era un lavoro che durava anche più di un giorno e coinvolgeva tutte le piante del podere.
Ma era proprio questa fatica condivisa a trasformare la vicenda in un'occasione speciale. Le persone del vicinato si riunivano per completare insieme il lavoro, e spesso gli accoppiamenti tra giovani uomini e donne diventavano occasione per conoscersi meglio, tra sguardi timidi e risate complici. Non mancavano mai dolci, merende e vino per celebrare la giornata.
La sera, la festa continuava con i ragazzi e le ragazze che, a piedi nudi e con i vestiti tirati su, entravano nella ‘canala' per pigiare l'uva. Li si osservavano saltellare freneticamente, trasformando il raccolto in mosto. Era un momento di gioia per tutti, ma soprattutto per mio padre e mio zio, che vedevano coronati mesi di lavoro paziente e faticoso.
Ricordo una particolare vendemmia: quella del 1960. La villa di campagna del proprietario, dove era ubicata la ‘canala', si popolava di parenti e amici per l'occasione. Il signor Cesare Gasparri, fratello dell'allora proprietario, arrivava da Roma e amava intrattenersi con noi ragazzi. Un giorno mi chiese, con un'aria solenne e bonaria: “Coccu, sai che giorno è oggi?” Io, sorpreso, non risposi. Lui aggiunse: “Il 12 ottobre. Ricordati sempre questa data: 12 ottobre 1492, giorno della scoperta dell'America.”
Non me lo sono mai dimenticato, e questo racconto vuole essere anche una piccola promessa mantenuta.
Mi viene in mente anche un'altra immagine: quella del novembre 1944, con il signor Cesare Gasparri, all'epoca sottotenente di complemento del Regio Esercito. Dopo l'8 settembre 1943, fu catturato dai tedeschi, ma riuscì a fuggire e tornare a casa. Era un uomo pieno di storie e amava condividere il proprio passato con tutti noi.
Ora, a distanza di anni, non posso fare a meno di ripensare a quelle giornate. Ogni vendemmia non era solo un momento di lavoro, ma un'espressione di un legame più profondo: con la terra, con la famiglia, con le tradizioni. Il sapore del vino che si otteneva sembrava raccontare tutto quel lavoro, tutta quella fatica e, soprattutto, quel senso di comunità che oggi, a distanza di tempo, mi manca più di ogni altra cosa. Ricordo ancora mio zio Venanzio, mio padre, e quegli occhi rossi ma felici che parlavano di un legame con la terra che non si spegnerà mai.
Da Aricordete (Edito in proprio, 2025)