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Rosa del battito, di Donatella Nardin, edito da Fara e prefato da Riccardo Deianna

Rosa del battito, di Donatella Nardin, edito da Fara e prefato da Riccardo Deianna

Rosa del battito – Donatella Nardin – Fara – Pagg. 88 – ISBN 978889490384 – Euro 10,00



Prefazione


È una poesia tormentosamente floreale, quella di Donatella Nardin, che con la sua policromia sollecita un organo soprattutto: l'occhio. Un occhio ben collegato, verrebbe da dire, e fuso a piombo, seppur con qualche stor­ta interferenza, con lo spirito (come il titolo di un saggio di Merleau Ponty). Dare priorità allo sguardo piuttosto che all'olfatto o all'udito, non è irrilevante, in quanto condiziona e sta­bilisce il modo, anche etico, in cui si incardi­na chi scrive, e come al mondo si rapporta e secondo quali ascisse lo traduce. Potenzialità e limiti, di retine e iridi, sono contemporane­amente espresse da Nardin, senza indulgenze intellettualistiche, semmai nel rispetto dell'e­nigma più riottoso (“l'enigma che siamo”), e di una contraddizione irrisolvibile: che basti l'os­servazione empirica, la registrazione tutta sensi e superficie degli oggetti, a definire veramente un angolo di città, o una mattonella di esisten­za. Una strofa può agire da microscopio come da telescopio; può adottare i raggi gamma o lo sviluppo in camera oscura; a seconda dello strumento e del metodo utilizzati, siano essi ad alta precisione o in 2 D, muterebbero i risultati atmosferici, contenutistici e contestuali, certo; muterebbe l'esteriorità, l'apparenza del dato, ma non l'essenza. In altre parole, la poesia, come ogni altra tecnologia umana, può sola­mente aspirare, in una tensione costante con l'espressione (ogni dire un ar-dire), a riferire la realtà, perché poi a un metro dall'arrivo (“la meta a lungo anelata // e rimasta impigliata / tra le labbra e il respiro”) è condannata – me­ravigliosamente condannata – a inciampare, ri­velandoci così, mentre ancora rotoliamo a terra davanti al traguardo, che, nella sfida lirica e gnoseologica, il varco di montaliana memoria è sì intuibile e perfino, mutuando la parola da Nardin, ‘arrampicabile', ma per qualche istan­te e mai del tutto, e sicuramente mai per la sola via sensibile: “E più vicino è qualcosa di memo­re / donato all'essere appena sfiorato”. Una se­rie di verbi immediatamente successiva ai versi appena citati è, in proposito, chiave: “sgorga, / supplisce, traspare”. La triade enuncia, senza patimenti nichilistici, il comportamento dell'es­sere, circonfuso di tepore materno, puro tepore di una maternità che sloga da anagrafica e inti­ma (“nonna Luisa”), a universale, nel corrusco passaggio del sintagma “Il fiorire è la bocca”; enuncia come l'essere si comporta: un elemento acqueo, dell'acqua di cui pure e principalmente è colmo l'umano, che sgorga nell'orizzonte del visibile da una fonte, per poi terminare traspa­rendo, in una sorta di evaporazione. Ma un al­tro è il centro del discorso, centralità espressa anche sul piano testuale: quel supplire, posto tra i due. Una spia semantica che sembra con­tenere il seguente messaggio: seppure rapido nella sua danza, come il più antico degli amo­ri, la parabola dell'essere basta non, si faccia attenzione, a surrogare (o simili) il vuoto e la sofferenza in cui si è rimasti impigliati (“Passa­no vermiglie le stagioni / non la sofferenza / che rode, rode / e attorciglia”), ma a ‘supplire', cioè a riempire il primo, implicandolo dunque e evi­dentemente affrontandolo (una poesia riporta, in questo senso, un titolo esemplare: L'arte del mancare), e a ricoprire, immergendola, la seconda. La sofferenza, sorprendentemente si scopre, non sta solo a livello di laguna: si pre­senta come epidermica, ma dissimula, in realtà, un incavato e tragico nodulo secolare e storico (“fuori non c'è verità”); e perfino politico, nella declinazione lavorativo-sindacale che troppo manca nella poesia contemporanea: “piegati a lottare / la danza del tempo davanti ai cancelli / di uffici e fabbriche chiuse”, “accerchiati / da un nulla sfuggente di capannoni / industriali ormai vuoti”; e perfino, in ultimo, a livello so­ciale ed educativo, come nel caso del bullismo: “è un vivo dolore lo scherno bruciante”.

La policromia, si è detto all'inizio, stimola un occhio fuso a piombo con lo spirito. Infatti, i colori non sono un vezzo fine a sé; no, essi hanno un'origine: provengono da una mirabi­le varietà di petali; e un fine: proiettano e ri­specchiano (anche in negativo, come nel caso dei «petali mutili»); simboleggiano la grazia e talvolta esorcizzano. Nella raccolta di Nardin si avanza come in un giardino botanico in un giorno feriale d'inverno: tra le tonalità brumo­se del contesto e il portamento cascante di certi vegetali, causato dalla titubanza del sole – quel sole che a vent'anni, recita un verso, è solo un indifferente “enunciato” e in età adulta un pessimistico chiaroscuro epocale; tra l'oscuri­tà delle vasche e i cartellini apposti a indicare sfocati nomi scientifici; scarsi i rumori mec­canici, che so, di zappa e rastrello, notevoli al contrario quelli spirituali; c'è il silenzio profon­dissimo, tragico e innocuo, dell'universo colto nel suo sospiro; ma, tra i numerosi elementi spaesanti, di tanto in tanto si affacciano, ap­punto, i fiori (rose, giunchiglie) a consolare e a ridistribuire la timida luce della speranza “che tutti ci smisura”. E così, pure, appaiono figure evanescenti che “irrorano” per un attimo l'a­nima; e volti che balenano improvvisamente “e poi divengono”; e scialuppe di salvataggio verbali: le “parole celate / dentro altre parole”. I petali giocano un ruolo essenziale, non tanto per la loro tridimensionalità e presenza materi­ca – siamo lontani dal liberty – ma perché sem­brano cuciti, e così invito a interpretarli, come su delle quinte, le quinte sfilacciate del reale, del suo piano bucato (buchi di senso); lì: come toppe iridescenti su belluini conflitti dell'ani­ma, su relazioni filiali, erotiche crisi, su vite strappate; lì: a rimediare, nella desertificazione fisico-corporea (“gabbia arrugginita // di ten­dini e ossa”), ai brandelli cui ci si riduce. Non è un caso se il tema sartoriale ritorna, e con chiare tinte allegoriche: “quel filo d'erba che ri­cuce solo / facendosi tagliente”; “ci sferruzza / un cielo bucato”; “ricamo rammendi attorno”; “e gonne rattoppate dal rancore”.

E anche se “tutto passa e si smemora” eccet­to “il lutto, stele incisa /a fuoco vivo”, Nardin ci dice che “Tornerà l'azzurro di ieri – credici”. Credici, mio lettore. Crediamoci, miei amici.


Riccardo Deiana