Verso il paradiso, di Hanya Yanagihara, edito da Feltrinelli e recensito da Katia Ciarrocchi
Verso il paradiso - Hanya Yanagihara - Feltrinelli – Pagg. 768 – ISBN 9788807034817 – Euro 22,00
Verso
il paradiso di Hanya
Yanagihara è
una di quelle opere che non si limitano a essere lette: si
attraversano, si affrontano, si interiorizzano. È un romanzo vasto,
ambizioso, stratificato, che intreccia la storia personale con quella
collettiva, specchiando in tre epoche diverse – e immaginate – le
fragilità e le aspirazioni dell'animo umano. Leggerlo è come
percorrere un sentiero che cambia forma sotto i piedi: a ogni passo,
ci si confronta con un nuovo mondo, ma soprattutto con una nuova idea
di cosa significhi amare, sopravvivere, appartenere.
La
prima parte è ambientata in un 1893 alternativo, in un luogo
chiamato “Stato
Libero”,
una versione idealizzata dell'America, fondata su valori di
uguaglianza e tolleranza. In questa società utopica – dove i
matrimoni omosessuali sono legalmente riconosciuti – conosciamo
David Bingham, un giovane di buona famiglia intrappolato tra
l'obbligo e il desiderio. Deve scegliere tra un matrimonio
conveniente, sicuro, conforme alle aspettative della sua classe, e un
amore vero, autentico, con un uomo di origini umili. In questa
scelta, apparentemente semplice, si annida un intero universo di
contraddizioni. Mi sono sentita toccata dalla lotta silenziosa di
David, dal suo tentennare, dal modo in cui Yanagihara esplora i suoi
pensieri più intimi con una delicatezza che sa di confessione. Il
paradiso,
in questa prima storia, sembra prendere la forma della libertà
affettiva, ma una libertà che – come spesso accade – si scontra
con il peso della tradizione e del privilegio.
Il
secondo scenario ci proietta in un 1993 più simile al nostro,
durante la crisi dell'AIDS, è una sezione più cruda, più vicina,
più dolorosa. Qui troviamo un altro David, un giovane hawaiano dal
passato tormentato, che convive con Charles, un uomo più grande, più
stabile, più protettivo. Il “paradiso”,
stavolta, è rappresentato dalla possibilità di una tregua, di una
casa, di un amore che riesca a contenere il dolore. Ma la malattia
grava come una condanna incombente, minando ogni illusione di pace.
Yanagihara ha la capacità di rendere tangibile la paura, la perdita,
ma anche la tenerezza, la bellezza minuta di quei legami che
resistono anche quando il corpo cede. È qui che emerge in modo
lampante la sua straordinaria sensibilità narrativa: sa raccontare
la sofferenza senza indulgere nel melodramma, e anzi, ci mostra
quanto possa essere struggente l'umana aspirazione alla
normalità.
Infine,
veniamo trasportati nel futuro, nel 2093, in una società distopica
segnata da pandemie ricorrenti, disastri ambientali e un controllo
autoritario che si traveste da protezione. La protagonista è
Charlie, una donna che vive in una realtà iper-regolamentata, dove
ogni gesto è monitorato, ogni libertà soppressa in nome della
sicurezza. Questa parte è claustrofobica, inquietante, ma anche
incredibilmente potente. Charlie è fragile, segnata da traumi e
isolata, eppure la sua ricerca di un “paradiso”
– che
ora non è più amore, né libertà, ma semplicemente autonomia,
dignità, voce – si fa universale. Ho avvertito in questa parte una
disperazione che non spegne la speranza, ma la tiene nascosta sotto
strati di paura. Yanagihara immagina un mondo in cui ciò che ci
aveva promesso salvezza – la scienza, la medicina, il progresso –
si è trasformato in strumento di oppressione, e ci invita a
chiederci quanto siamo disposti a cedere in nome della
sicurezza.
“Verso
il paradiso”
è
un romanzo impegnativo, la sua struttura tripartita, la molteplicità
dei registri e dei piani narrativi, richiede attenzione, presenza,
ascolto. Ma è proprio questa complessità a renderlo un viaggio così
significativo. I temi affrontati – la discriminazione, la malattia,
l'amore, la libertà, la solitudine, l'identità – si mescolano
in una narrazione che non dà mai risposte semplici, ma pone domande
radicali. Che cos'è davvero il paradiso? È una condizione
esterna, sociale, storica? O è qualcosa che si costruisce dentro,
anche (o forse solo) nei momenti più bui?
Yanagihara
possiede una rara capacità di penetrare nei pensieri più nascosti
dei suoi personaggi; li rende vivi, tangibili, anche quando il mondo
intorno a loro sembra fittizio o esasperato. E in questo sta la forza
del romanzo: nel farci riconoscere, in ogni epoca e in ogni realtà,
il volto mutevole ma sempre umano del desiderio di amare ed essere
amati, di essere liberi, di appartenere a qualcosa o a
qualcuno.
Questo
libro non lascia indifferenti. Ti accompagna, ti sconvolge, ti
disorienta. E soprattutto ti costringe a riflettere su quanto siano
fragili e mutevoli le nostre certezze: sul bene, sulla giustizia, sul
futuro. È un romanzo che si legge con lentezza, con fatica a volte,
ma che lascia un segno profondo, come solo i grandi romanzi sanno
fare. E alla fine, ti ritrovi a pensare che forse il paradiso non è
un luogo, ma una possibilità. Una promessa. O una lotta.
Citazioni tratte da: Verso il paradiso di Hanya Yanagihara
Come può saperlo Dio che cosa vuole ogni persona? Come poteva essere sicuro di averli portati nel posto che avevano sognato? Il nonno aveva riso. “Lui sa, David,” gli aveva risposto. “Lui sa, e farà tutti i Paradisi che gli servono.” (pag 195)
Una persona era la cosa peggiore da lasciarsi indietro, perché una persona era imprevedibile per definizione. (pag 251)
… non eri mai riuscito a fidarti della mia capacità di fare il padre se imparasti presto che la gente non si comporta mai come dovrebbe, e che le cose non sono come sembrano. (pag 369)
Ma quando si invecchia, si fa tutto ciò che si può per restare vivi. A volte nemmeno ti accorgi di farlo. A volte, un istinto, un sé deteriore, prende il controllo: e perdi ciò che sei. Non succede a tutti. Ma succede a molti di noi. (pag 550)
…esistono due tipi di persone: quelli che piangono per il mondo, e quelli che piangono per sé. Piangere per la tua famiglia, disse, è un modo di piangere per te stesso. “Quelli che si congratulano per i sacrifici che fanno per le loro famiglie non stanno facendo un vero sacrificio,” disse, “perché la loro famiglia è un'estensione del loro sé, e quindi una manifestazione dell'ego.” Il vero altruismo, concluse, è darsi a uno sconosciuto, a qualcuno la cui vita non si incrocerà mai con la tua. (pag 648)
Katia Ciarrocchi
