Terre d’acqua, di Donatella Nardin, edito da Fara e recensito da Nazario Pardini
Terre d'acqua – Donatella Nardin – Fara – Pagg. 80 –
ISBN 978 94903 25 6 – Euro 9,00
Postfazione di Nazario Pardini
“Varcare il mare per scoprire l'altrove”
D'oro e di luce ti bagnerei lo sguardo, / improvvida luce del nostro primo / sentire, terra madre sbocciata dai polsi / di un piccolo nulla che in sé appalesa /tutti gli eventi. / Nuda, gloriosa, vortica l'acqua / delle nostre radici sull 'orlo vivo / del tempo se al collo indossa / la vivacità di una corte di foglie / e di uccelli // dall'acqua raccolgo il mio volto // sfiorando l'asfalto, sfida i limiti / dell'emotività l'imperativo / a svettare e chissà cosa si cela al di là, /
cosa riluce nel grumo violetto / di piume e cementi , quale solitudine / accesa alle palpebre chiuse.
È con questa poesia eponima, incipitaria, che possiamo immergerci, fin da subito, in un animo tutto proteso alla scoperta di sé stesso, di un legame terra-acqua che fa di questo poema il leimotiv, il filo rosso, la simbiotica fusione fra spazi ontologici e ondulazioni native.
È da qui che inizia il cammino, l'avventura, il nostos di una poetessa tutta
intenta a varcare il suo mare per scoprire l'altrove, pur percependo lei stessa nel profondo, che è quel mare la sua verità, che è quella terra il porto di arrivo di un viaggio dal sapore odissiaco.
Si sa che è proprio dell'uomo aspirare a superare i vincoli che lo legano agli spazi ristretti, giacché, per natura, ha bisogno di aria, di cieli senza limiti, di orizzonti che vadano al di là dei suoi intendimenti.
Ma si sa anche che siamo tutti alla ricerca di quell'Itaca perduta che, prima o
poi, torna per bussarci alla porta per farsi rivivere più intensamente in noi dopo
anni di sperdimenti e sottrazioni.
È nelle corde umane.
Ritrovare la luce, il fuoco che l'ha alimentata, che ha idealizzato la sua terrenità, il suo piccolo tratto lambito dal mare, significa dare ossigeno e sangue alla poesia, giacché ognuno di noi si porta dietro la propria caducità e insieme la forza delle proprie radici.
“Cavallino Treporti è una lingua di terra incuneata tra il mare Adriatico e la
laguna nord veneziana, uno spazio fisico dunque, ma anche il luogo dell'anima e del pensiero, una materia intima, emozionale atta a definire una precisa identità e una specifica appartenenza” osserva Donatella Nardin nella nota introduttiva.
Qui il respiro del suo tempo, i riverberi dei suoi giorni, qui l'alimento della sua
emotività, le rive da cui avrebbe voluto spesso partire per ritornare nuova, con l'animo e la mente intrisi dei tramonti e delle albe della sua antica e rinnovata memoria.
Ed è ogni angolo di questo suo mondo a farsi epigrammatico travaglio esistenziale e territorio dei chiarori e delle penombre che l'hanno veduta crescere.
Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. (da La luna e i falò di Cesare Pavese)
Torno a sera / zeppo di vita, / arricchito di genti di mari e di città / che colmarono in parte le mie voglie. / E questa è la mia sera: / è un'ora che lascia / all'incoscienza del mattino / la ricchezza del ritorno… (da Le simulazioni dell'azzurro di Nazario Pardini)
Ecco allora che la poesia si frantuma e si ricompone in un gioco di assemblements che appalesa gli stati d'animo celati in quegli anfratti. Ogni angolo sedimentato nel cuore parla di storie vissute, di vicende tristi o gioiose, di avvenimenti che mai andranno perduti perché continueranno a vivere nella luminosità di un poema che li contiene tutti.
Bisogna stare lontani dai propri luoghi, se non fisicamente, spiritualmente almeno, per apprezzare i ritorni. Da questi l'epicità di un lirismo di epifanica rinascita.
L'animo vola e svola.
Esce dal corpo e attraversa i più appartati recessi di quel piccolo universo.
Se ne impossessa, li spreme, ne sugge le sostanze più segrete, per portarle con sé al suo rientro, dopo la fuga.
E il corpo vibra, il lessico sente il bisogno di dire quello che il dentro detta
tanto che, nella foga di coniugare il sentire alla coscienza di esistere, ci si inoltra al di là dei volti e degli spazi, dei colori e dei movimenti e tutto si colma di nuove sensazioni, delle grida degli uccelli marini, di voci sussurrate ai silenzi e alle rive insaziate dei suoni. In tale slancio, la parola di Donatella Nardin scorre a volte limpida, serena,a volte concitata, rapita di fronte ad un
mondo che l'ha vista balbettare e che la vede ora matura, gonfia di substantia da trasferire in epigrammatiche soluzioni, in versi di grande sonorità eufonica e di notevole resa poematica che toccano le cose che ci chiamano, quelle che ci portiamo dietro e che sono guida del nostro esserci.
Sono dentro queste cose le dolci illusioni, gli amorosi sensi, il focus del viaggio
e sono oltre esse gli orizzonti a cui aspiriamo spesso indecifrati e indecifrabili
per il fatto che siamo umani, destinati al dubbio di fronte alle questioni del vivere, cagione della inquietudine, buon terriccio per la resa preziosa del canto. Il fatto sta comunque che noi viviamo loro accanto ed è proprio questa vicinanza a formare il retaggio delle nostre radici che inspiegabilmente
ci vogliono a casa. Mistero dei misteri.
Quattro le sezioni dell'opera: Radici, Cieli di voli e di assenze, Nutrimenti,
Le parole per dirsi, che in un climax di fattiva generosità esplorativa, scavano,
perlustrano, scoprono e appuntano momenti di una storia dai risvolti intimamente profondi:
Considera di questo luogo isolato / la macchia viva del cielo: / un talento mite
ma autorevole / inonda i campi e le case / di cose buone, lucenti.
Già nella prima sezione l'autrice sembra permeata da una luce particolare e cioèquella riflessa dal cuore, dall'intelletto e dall'immaginazione.
È una luce che nel suo percorso si fa sempre più potente, sempre più splendente attorno alle cose raccolte in lei fin dalla nascita: Fa l'anima il mare, Le molte voci, Il Faro di Punta Sabbioni, I due campanili, Le barene, La pineta… un excursus puntuale, un ritratto geografico e panoramico di tutto ciò che dall'animo si erge con luminosità accecante per noi figli di un acquoreo disegno all'infinito.
È di questo infinito che si ciba la sua intenzione poetica: un volo verso l'alto
per trasferire tutto ciò che si è fatto immagine nella purezza dei cieli, dato che
ciò che lei ammira non è altro che quella intatta materia che, dopo aver attraversato il campo dell'inconscio, è tornata agli occhi come cosa nuova, sacra, da tenere vicina come questione di aria da respirare:
non sono troppe le parole / da dire, basta quel tuo esserci accanto.
E dove niente può essere notte, può essere buio, può essere nulla e dove persino la sera la lucida sera / sì, è una trepida sera l'incantata / verticalità di un'attesa.
E nell'ipotetica assenza che ne sarà del troppo dolore?
Turbata bellezza, quasi da morirne, / che ne sarà del troppo dolore? / Fremente nell'ala, che ne sarà / del fitto mistero che ci abbrividisce? / Forse mai lo sapremo. / (…) / Diffonde il fuoco della mancanza / la grazia crudele di un indocile / pigolio.
Ed è un amore avvincente, eterno che si fa domanda incalzante, questione quasi escatologica.
Ma i nutrimenti? L'alimento? L'estate lenta, Sere di paese, Una nuvola, Il vanto del fiore, La campagna, Foglie… un mélange di cospirazioni, un groppo che prende la gola e che chiede spazio per farsi poesia.
Sì, per farsi canto ma per tale combinazione occorre il mezzo più umanamente
disumano: la parola. Quella per dirsi. Il valore aggiunto nella silloge di Donatella Nardin.
La grammatica del suo poièin richiede ben altro, ché non le è di certo sufficiente lo spazio della tradizionale morfosintassi. Bisogna trascendere, andare al di là dell'etimo, con invenzioni iperboliche, con costruzioni di sintestetica significanza, con iuncturae di personale fattura.
Questo è il non semplice intervento di una poetessa che dagli abbrivi emotivi,
dalle vertigini di panica intrusione, dalle scosse di una materia incandescente riesce a ricavare un poema tanto vicino al sentire-laguna di ognuno di noi.
Si scioglie agosto nell'arcano marino, / precipitando dilegua, ma prima / di andare nello stupore incendia / le minuscole ignavie degli occhi…
… Acqua, sorgente fertile, perfetta / di questo canto imperfetto / che all'anima
giovando, doma l'arsura / e alle soglie del nostro segreto / – per fame o per amore – // per mano ci conduce.
