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La donna più vecchia del mondo, di Daniela Raimondi, edito da peQuod e recensito da Francesca Maria Federici

La donna più vecchia del mondo, di Daniela Raimondi, edito da peQuod e recensito da Francesca Maria Federici

La donna più vecchia del mondo – Daniela Raimondi – peQuod – Pagg. 92 – ISBN 9788860683908Euro 15,00




Postfazione


Daniela Raimondi ha raggiunto il successo, e il grande pubblico, con la narrativa, ma ha sempre scritto poesia. Di silloge in silloge ha creato una realtà scenica ricchissima, abitata da personaggi in carne e ossa, inventati e reinventati. E questa sua ultima raccolta – dove narrativa, biografia e poesia

si intrecciano con grazia – potrà diventare un riferimento, un po' da scovare e scoprire, per le nuove generazioni di poesia.

I miti qui narrati – perché di miti si può parlare nel senso più bello e profondo del termine – sono grandiosi e meschini insieme. Grandiosi perché, mentre affrontano sventura e sofferenza, mantengono una postura epica; meschini perché, in fondo, la loro sofferenza è quella di tutti noi. E qui sta il bello: è la sofferenza di chiunque, indossata da nomi noti e non. L'impulso, durante la prima lettura, è stato quello di trasformarmi in una ‘detective selvaggia'. Mossa

dalla curiosità e da quel – in realtà limitante – bisogno di sapere tutto a proposito dei personaggi dal nome noto, sono andata a cercare riscontri e notizie aggiuntive rispetto alle note di lettura finali che l'autrice ha deciso di regalarci; salvo poi rendermi conto, in breve tempo, di come tutti i non detti siano assolutamente loquaci – e tali vanno ascoltati – e di come i frequenti dettagli storici, che l'autrice ha saputo condensare sapientemente in versi, siano in grado di proiettare chi legge all'interno di ciascuno di quei piccoli e sconfinati universi, trasferendo loro un quieto senso di esattezza.

Daniela Raimondi riesce nell'affascinante compito di far accedere il lettore a verosimili interiorità psicologiche, facendolo sentire teneramente commosso e vicino alle persone, alle persone che hanno vissuto ancor prima che ai personaggi che sono stati costruiti. E non è un caso che molte delle poesie

contenute nella raccolta siano punteggiate proprio da elementi fisici – carne, ossa e sangue – oltre che da singole parti del corpo, nominate nella loro crudezza e universalità. La dimensione materica dell'esistenza, così come la corporeità femminile, è onnipresente: avvicina e non repelle, accomuna

e non separa. Assume tutte le forme possibili.

E così il corpo è inservibile campo operatorio:

Hanno inchiodato le mie ossa,

amputato una gamba

La mia schiena a volte puzza

come un cane bagnato.

È strumento, mai goduto, di chi è costretta a essere “puttana e vestale”, non potendo fare altro che attendere, inerme, il prodigio dell'atto sessuale proibito. Il corpo non può neanche permettersi di morire struccato se, donandoci in vita

la favola del sesso”, ha promesso di liberarci dal peccato originale.

Durante l'autopsia ti recisero i seni.

Piu tardi riempirono il tuo reggiseno di stracci

e ti dipinsero le labbra di rosso.

Ti infilarono la parrucca biondo platino,

il vestito di Gucci che amavi tanto.

Il corpo è anche armonicamente parte della natura, partorisce nuovi mondi “come fanno i fatti, gli agnelli / tutte le bestie che nascono a primavera” ed è al tempo stesso contenitore di maternità mancate. Ma non per questo meno portatore di energia creativa.

Ora posso solo insegnare alla gente

come farsi commuovere dal buio,

da tutto cio che e sterile.

Donne di cronaca, artiste e dive, donne letterate e letterarie, donne autobiografiche (chissà!), fino all'archetipo femminile per definizione, Eva, che però qui non è entità biblica evanescente, ma si nasconde, per così dire, fra le tante. Fa la sua apparizione – inconsciamente attesa – a metà raccolta (seppur all'inizio della terza sezione), mescolata con le storie delle altre donne come il Jolly imprevisto in un mazzo di carte.

Ora mi chino su resti del passato.

Annaffio piante morte nei vivai

raccolgo pietre, avanzi di cibo,

culle vuote.

Koku Istambulova, la donna più vecchia del mondo. Frida Khalo. Eva. Isolina (la stessa Isolina sulla quale Dacia Maraini ha scritto un saggio). Sylvia Plath. Una donna con un tumore. Una vedova suicida con la propria figlioletta.

Ofelia. Marguerite Duras. Marilyn Monroe. Tante Eve che colgono la mela, o che ci provano, cercando l'emancipazione attraverso la propria arte o la liberazione per via della morte.

Tutte donne dal percorso tortuoso e, in un modo o nell'altro, dipendenti dagli uomini, che sia un marito traditore o un compagno morto, un produttore cinematografico, un amante, un fratello violento. O un medico che stima la percentuale di sopravvivenza. Agli uomini si affidano per ritornare alla vita, per essere guarite “dall'inferno” che cresce “accanto al cuore”. Per quante si sono abituate a vivere l'inferno sulla terra – a Saigon, ad esempio, o a New York, Hollywood, Città del Messico, Roma – e ad averlo nel cuore, “non c'è via più

dura verso il Paradiso”.

Per Beatrice, invece, è diverso. La sua sopravvivenza dipende sì dalla voce di un uomo, ma si tratta della voce di Dante, che per tutta la vita si dedica alla “esumazione di una lingua” che la “pronunci ancora viva”; il che è degno di nota, perché la sola voce maschile dell'intera raccolta appartiene a chi si è spinto sul fondo dell'imbuto rovesciato.

In questo modo Daniela Raimondi ci veicola, una volta di più, un messaggio preciso, chiaro, nella forma più struggente e forte possibile: che la paura del buio e del vuoto passa solo entrandoci dentro, affrontandola e venendone fuori.

La via per il Paradiso è dura, è vero, ma non impossibile.

Soccorre il “suono sacro della poesia”.


Francesca Maria Federici