Le nozze d’oro
Le nozze d'oro
di Renzo Montagnoli
Sono già pentito di avere accolto l'invito di mio cugino, che è seduto di fronte a me nella lunga tavolata degli intervenuti, cugini di diverso grado, parenti vari e amici, tutti intenti a festeggiare con il pranzo le nozze d'oro degli zii Francesco e Valentina. Per essere precisi non sono proprio zii, perché in quanto lei sorella della mia nonna materna sono i prozii, due personaggi di un'epoca lontana uniti dal matrimonio di cui oggi ricorre il mezzo secolo. Si sono sposati appena lui è tornato dalla Grande Guerra, in tutta fretta perché, come mormorava chi sapeva il segreto, lei era incinta di quel bimbo che sarebbe nato da lì a sei mesi. Dopo questa parentesi (ma ce ne saranno molte, perché i ricordi non sono solo quelli che hanno i festeggiati, ma ci sono anche i miei, ovviamente per un periodo più breve, perché lo zio Francesco e la zia Valentina hanno la stessa età, ottantotto anni, una misura che batte ampiamente la mia che con i miei sessantotto anni in confronto posso sembrare un ragazzo), dicevo dopo questa parentesi sto a spiegare perché sono pentito di essere presente, attorniato da visi noti, ma anche da altri del tutto sconosciuti, che tuttavia risulterebbero legati da una familiarità, come il cugino Giuvanon, chiamato così perché di buona stazza, ma che di nome fa Giovanni, o la cugina Celestina, una donnina minuta, ma piena di energia; resta il fatto che tutti hanno da raccontare qualcosa di una vita che credono diversa dalle altre, ma che si può sintetizzare nel matrimonio, nella nascita dei figli, nel raggiungimento del traguardo della pensione, una storia che conosco a memoria, del tutto analoga alla mia. Si mangia, si parla, si beve, si alza la voce, ogni tanto corre un applauso non si sa per cosa, insomma un ritrovo di parenti come tanti. Gli unici che sembrano estranei sono proprio loro, i festeggiati. Stanno vicini, parlano poco e sottovoce, più che mangiare spiluccano, più che bere sorseggiano.
Certo che con così tante primavere non si deve sgarrare, è indispensabile controllarsi, soprattutto nell'alimentazione, ma credo che questa limitata partecipazione al convivio sia frutto di altri motivi. Due anziani come loro che hanno rare occasione di incontrare altri, che hanno cristallizzato anni di abitudini, devono sentirsi un po' persi in quel frastuono e credo che abbiano solo voglia di tornare alla loro casa.
Mi alzo, mi avvicino mentre i camerieri stanno portando il dolce, una torta di nozze che credo dovrebbero tagliare loro, almeno la prima fetta, e infatti di colpo tutti zittiscono, per poi battere le mani e quasi urlare:”Zii, il taglio, dovete tagliare la torta!”. Li vedo impacciati, si guardano negli occhi, poi lui lentamente e a fatica si alza, prende il coltello da dolci e con le mani tremanti prova a tagliare, ma è evidente che non ce la fa ed è allora che uno dei pronipoti gli guida deciso la mano, suscitando un applauso mortificante.
Lo zio Francesco si lascia cadere sulla sedia, affaticato come se avesse corso una maratona, e abbassa gli occhi. Né lui né la zia assaggiano la torta e nemmeno bevono lo spumante, poi sento che confabulano, che lui le dice che desidererebbe tanto andare a casa, se qualcuno li accompagnasse.
Mi offro subito e loro mi guardano riconoscenti. Accomiatarsi non è difficile, è più complicato alzarsi, e poi ci sono le solite parole, come un arrivederci per un pranzo il prossimo anno, sempre che ci sia un prossimo anno per loro, come penso io, ma come forse pensano anche loro, perché l'idea di esserci ancora fra 365 giorni muove una piega delle bocche, che non si sa se è un sorriso ironico o un senso di pietà per se stessi.
Usciamo dal locale, li faccio salire in auto, mi faccio dire dove abitano perché non lo so ed ecco che arriviamo alla loro casa. Abitano al secondo piano di una palazzina, li accompagno su per le scale perché non c'è l'ascensore ed è un'ascesa lunga, ma alla fine siamo al loro appartamentino, una cucina abitabile, un salottino, una camera da letto e i servizi. Vogliono che resti un po', con il pretesto di un caffè che beviamo nel salottino, loro su un divano, io sull'unica poltrona. Mi guardo intorno, una piccola libreria, un apparecchio televisivo su un mobile antico e una credenza sulla quale c'è come un altarino, sì proprio un altarino, due candele accese e una fotografia incorniciata di un uomo. Si sono accorti che guardo quell'immagine, che cerco di capire, e allora lui mi spiega.
“Eravamo sposati da poco quando è nato Alfredo, quello che sarebbe stato il nostro unico figlio, e che abbiamo cresciuto con immenso amore, facendo sacrifici perché avesse un'istruzione migliore della nostra, e infatti si era diplomato maestro. Ma, ma...non fai in tempo ad aver la gioia di vedere il tuo frutto finalmente maturo che qualcuno te lo porta via. Scoppiò la guerra, lui fu chiamato alle armi e fu inviato in Russia. Ci scriveva sempre, dicendo che stava bene, che sarebbe tornato presto, ma quando il nemico ruppe il fronte, anche lui come tanti si ritirò. Però... però non è mai arrivato a casa, disperso ci scrisse il ministero”.
La zia Valentina, a cui cominciano a scendere due lacrime, allora interviene:
“Ci siamo illusi che potesse un giorno tornare, Dio sa quanto l'abbiamo aspettato, tanto che i primi anni quando apparecchiavamo lo facevamo anche per il suo posto; poi è sopravvenuta la rassegnazione, ma io spero sempre che non sia morto, che sia rimasto ferito e abbia perso la memoria, magari che si sia formato una vita là, che abbia sposato una ragazza del posto, tutto purché sia vivo.”.
Lo zio Francesco l'abbraccia e la stringe forte, poi aggiunge: “ E' una pena che trascorriamo in due, e se non ci fosse l'amore che sempre ci lega, l'avremmo fatta finita, e poi resta sempre la speranza, l'illusione che possa tornare.”
Non mi sarei aspettato una conclusione simile di quel giorno e infatti, prima che anche a me scendano due lacrime, invento l'urgenza di un appuntamento e raggiungo la porta, ma lo zio Francesco mi fa cenno di fermarmi:” Siamo solo noi due e lui, che è nei nostri cuori. Tu hai capito tutto e ti prego solo di venire a trovarci quando vorrai. In questa casa il tempo si è fermato da quando il ministero ci ha scritto che era disperso e uno che entra dalla porta, e ci parla, ci porta un po' di vita, toglie la polvere di anni che ci ha sommerso, ci fa sentire meno soli. Prometto che parleremo d'altro, anche del più e del meno.”
Rispondo senza esitare:”D'accordo, quando potrò.”
Poi corro fuori, do sfogo alla mia commozione lungo le scale e nello sciogliermi in un pianto silenzioso capisco che quella promessa buttata lì per uscire alla svelta ormai per me è diventato un dovere e mi dico che non avrei dovuto accettare l'invito a quel pranzo per la ricorrenza delle nozze d'oro, ma mi sovviene subito il ricordo di quei due vecchietti nel loro infinito dolore e già mi riprometto di andarli a trovare appena possibile, per alleviare, se pur di poco, la loro rassegnata solitudine.