L’aratura, di Sergio Menghi
L'aratura
di Sergio Menghi
L'aratura veniva fatta per dissodare gli appezzamenti di terreno destinati, secondo la regola della rotazione delle coltivazioni, alla semina del frumento. Iniziava nel mese di agosto, quando i campi erano liberi ed il fieno era stato tutto portato nel fienile.
La terra in questa stagione era solitamente molto asciutta e quindi dura da lavorare.
L'aratro era trainato dai buoi con l'aiuto di un'altra coppia di mucche. Se nella stalla c'erano delle 'giovenche', cioè giovani mucche, dette anche manze, che dovevano essere addestrate al lavoro, l'occasione buona era l'aratura perché richiedeva molto sforzo fisico.
Si formava quindi una colonna con in testa la coppia di mucche esperte, in mezzo le giovenche ed in fondo i buoi, un totale di sei animali per tirare l'aratro.
Non era una cosa semplice guidare tutti questi animali affinché il lavoro venisse bene. I buoi erano direttamente sotto il controllo di chi manovrava l'aratro, di solito mio padre, da loro dipendeva, in massima parte, la buona riuscita del lavoro, le altre coppie erano guidate da mia madre o da mio zio.
le giovenche al primo pelo richiedevano una notevole esperienza in quanto 'sfoghettavano', cioè tendevano ad andare dove volevano loro, talvolta si gettavano a terra o si volevano liberare dal giogo, un oggetto di legno che le teneva unite per sviluppare potenza in modo congiunto.
In questi casi il guidatore doveva azionare la frusta, con giusta determinazione, impedendo di non farle infuriare troppo perché, in tal caso, il lavoro sarebbe venuto male e potevano anche insorgere dei pericoli per le persone.
Mettendole in mezzo si riducevano molto i pericoli perché erano guidate dall'esperienza delle altre due coppie, inoltre potevano anche non applicare tanto sforzo nel loro lavoro, l'importante era che si applicassero ad andare insieme ed a riconoscere i comandi, poi il resto sarebbe arrivato pian piano con l'esperienza. Insomma come si fa con i bambini piccoli alla cui formazione, talvolta, non basta una intera vita.
Questa operazione si chiamava 'menare la vetta' perché la direzione che prendeva la coppia di testa era determinante per l'andamento del solco prodotto dall'aratro. Se il solco era dritto il lavoro era più semplice, bastava guidare la vetta lungo la traccia del solco precedente.
Le mucche esperte questo lo facevano in modo automatico senza necessità di impartire comandi, poteva essere necessaria solo qualche incitazione verbale quando bisognava aumentare lo sforzo in presenza di tratti di terreno più duro, ma anche questo lo capivano ed insieme ai buoi si coordinavano per superare bene l'ostacolo.
Il lavoro si complicava quando bisognava passare 'l'arbulu'.
Qui bisogna dire che per aumentare la produttività del fondo si era ricorsi a delle coltivazioni miste. In questo caso si trattava della vite che, oltre alla coltivazione nella vigna, veniva piantata anche, in campi idonei, associata ad un albero di acero campestre di medio fusto, opportunamente potato al fine di sviluppare quattro o cinque rami sui quali la vite si avvinghiava e produceva i suoi frutti.
Questi alberi erano dislocati ad intervalli regolari ed opportunamente distanziati in modo da poter lavorare il terreno sottostante anche per altre produzioni, come per l'appunto, il grano.
Si doveva quindi passare con l'aratro il più vicino possibile all'albero di vite avendo cura di non danneggiarlo.
Chi menava la vetta, non avendo più il vecchio solco come riferimento, doveva tirare il morso alla mucca di sinistra a tempo debito, affinché deviasse di quel tanto necessario a passare l'ostacolo.
Questo doveva essere fatto lentamente, gradualmente, senza strappi, per permettere al conduttore dell'arato di fare altre operazioni sull'attrezzo in modo da lasciare il minor terreno possibile non rivoltato; le rifiniture sarebbero state poi fatte da mio padre a sera con il piccone quando gli animali rientravano nella stalla per essere accuditi da mio nonno.
La piantata, così veniva chiamato il campo che conteneva questi alberi di acero e vite, era bella da vedersi perché si arricchiva a primavera dei verdeggianti colori della vite, a maggio-giugno fioriva l'erba o il frumento, a luglio si ornava con i mucchi del fieno o i cavalletti del grano mietuto ed a settembre con i bei grappoli penzolanti dell'uva matura, di varie colorazioni a seconda del tipo di vitigno impiantato: arivona, verdicchio, malvasia.
Con l'arrivo dei trattori tutte quelle manovre associate al passaggio dell'arbulu ed al menare la vetta sono diventate impraticabili ed i potenti mezzi, pian piano, hanno estirpato tutte le piantate, ma anche molte vigne.
A menare la vetta si recava spesso mia madre, ma se il terreno era scomodo, cioè in pendenza, non era facile trovare la giusta direzione per passare l'arbulu e quindi si agitava con mio padre che alla fine si arrabbiava anche lui e pure le mucche perdevano la calma perché non sapevano che direzione prendere.
Ebbene posso dire, con un po' di orgoglio, che alla fine mio padre preferì me per svolgere questa funzione, con mia madre tutta contenta per essersi liberata da quella incombenza.
Penso di aver capito che le mucche si rendessero conto di avere alla loro guida un ragazzo inesperto, ma pieno di tanta voglia di apprendere e sapeva dare i semplici comandi, nel modo ed al tempo giusto, mettendole in grado di fare il loro compito senza errori.
Quando le riportavo a casa, dopo il lavoro, e toglievo loro il giogo mi davano delle occhiate come per volermi ringraziare, poi, da sole, si recavano alla fontana per dissetarsi e raggiungevano la lettiera, dove mio nonno faceva il resto.
Da Aricordete (Edito in proprio, 2025)