Il quaderno dell’amore perduto, di Valérie Perrin, edito da E/= e recensito da Katia Ciarrocchi
Il quaderno dell'amore perduto – Valérie Perrin – E/O – Pagg. 336 – ISBN 9788833576015 – Euro 18,00
Una
storia gentile, tra ricordi, silenzi e seconde possibilità
Amo
la scrittura di Valérie
Perrin,
per la sua capacità di sussurrare verità profonde con grazia, di
trasformare la fragilità in poesia, la memoria in rifugio e le
ferite in racconto. Rispetto a Cambiare
l'acqua ai fiori e Tre,
questo romanzo d'esordio mi è sembrato meno incisivo, meno potente
nei colpi emotivi, certamente ha il suo valore, e conferma, già
dalle prime pagine, la sensibilità narrativa dell'autrice.
Siamo
in un piccolo paese della provincia francese, Justine ha ventun anni,
lavora come assistente in una casa di riposo chiamata “Le
Ortensie”, è una ragazza silenziosa, rimasta orfana a quattro anni
a seguito di un misterioso incidente d'auto in cui hanno perso la
vita entrambi i genitori. Cresciuta con i nonni e il cugino Jules,
Justine vive una giovinezza trattenuta, quasi immobile.
Il
suo lavoro nella casa di riposo è un modo per sentirsi utile, per
ascoltare ciò che il tempo rischia di cancellare, ed è lì che
incontra Hélène, una donna anziana, elegante, colta, piena di una
vita che sembra ancora tutta da raccontare.
Un
giorno Hélène le chiede un favore: trascrivere per lei un quaderno
in cui riversare la propria storia, i propri ricordi, il grande amore
vissuto con Lucien, l'uomo della sua vita, conosciuto prima della
guerra, perduto e mai dimenticato.
Nel
farlo, Justine si immerge in un racconto che non appartiene più solo
a Hélène, ma diventa specchio della sua stessa esistenza. Le
memorie della donna si intrecciano con la guerra, con il dolore, con
l'ignoranza, con il perdono e con l'attesa, ma anche con un amore
di quelli che restano addosso per sempre.
E
intanto, tra le righe del quaderno azzurro, Justine comincia a
cercare risposte su ciò che ha sempre creduto immutabile: la verità
sulla morte dei suoi genitori, il silenzio dei nonni e il dolore mai
detto.
Valérie
Perrin costruisce
una doppia narrazione, da un lato l'amore tra Hélène e Lucien,
struggente, limpido, reso vivo da una scrittura dolce ma mai
sdolcinata; dall'altro, la crescita di Justine, il suo risveglio
alla vita, il bisogno di guardare avanti ma anche di fare pace con il
passato.
Il
romanzo è un'ode alla memoria, l'idea che i vecchi siano
“dimenticati
della domenica”,
come recita il titolo originale francese Les
oubliés du dimanche,
è dolorosamente vera, e la Perrin la
ribalta con un gesto poetico: il quaderno, fragile e potente, diventa
il modo per farli esistere ancora.
Il
quaderno dell'amore perduto è
anche una riflessione sull'amore, quello eterno, ma anche quello
che ci salva, che ci cambia, che si cerca negli altri e dentro di sé.
L'amore che può nascere anche dopo, anche quando ci si è già
persi.
Lo
stile è quello che conosciamo e amiamo in Valérie
Perrin,
una scrittura dolce, delicata, essenziale ma mai scarna. Le frasi
scorrono come acqua calma, senza grandi scosse, ma con un'intensità
che cresce sottopelle.
Nel
suo esordio, l'autrice è forse ancora più misurata rispetto ai
romanzi successivi, il ritmo è più lento, quasi contemplativo, ma
non privo di profondità. I flashback sono ben calibrati, i
personaggi secondari credibili e affettuosi, non ci sono colpi di
scena, ma piccoli sussulti del cuore che si fanno sentire.
La
Perrin, con la sua grazia discreta, ci invita a non dimenticare, a
ricordare per vivere meglio, e ci ricorda che l'amore, anche quando
sembra perduto, può tornare sotto altre forme, magari in un
quaderno, magari in un ricordo, magari in un cuore giovane che impara
ad ascoltare.
Citazione tratta da: Il quaderno dell'amore perduto di Valérie Perrin
Bisogna ascoltare, sempre, subito, perché il silenzio non è mai troppo lontano.
Da
dietro le porte socchiuse, certi anziani sembrano zombie, con quello
sguardo puntato non sulla finestra, ma su un vuoto abissale.
Charles
Baudelaire ha descritto l'angoscia di un manicomio al calar della
notte, quando si riempie di grida. Nelle case di riposo, invece, è
il levar del sole a riscaldare gli animi.
Ciascuno di noi è il Michelangelo di qualcun altro. Il problema è che bisogna trovarsi.
Noi
aiuto infermiere siamo le custodi del tempio degli amori passati. Ma
è una voce che la busta paga non contempla.
Una mosca le sfiora
l'orecchio. Il sudore le imperla il tratto di pelle tra le narici e
il labbro superiore, sull'impronta dell'angelo. Si asciuga col
dorso della mano, pensando alla leggenda secondo cui, per l'appunto,
ciascuno di noi sa tutto della propria vita prima di nascere, ed è
per quello che un angelo ci posa un dito sulla bocca, appena nati,
ingiungendoci di tacere e lasciando la sua impronta sopra il labbro.
Se avesse saputo tutto, Edna non avrebbe permesso all'angelo di
toccarla, avrebbe semplicemente rinunciato a questa vita.
«Chi varca la soglia di un bistrot è come chi si rivolge a un dottore: cerca soltanto una cura alla solitudine»
Sudava, mentre sabotava i freni, l'odio risaliva in vampate di calore. Le mani non le tremavano. La sua vita era finita. Come la lavatrice. Lo sapeva eccome, che era finita, ben prima che Marcel controllasse «un'ultima cosa». E, quando la vita è finita, non si trema e non si piange più, si odia e basta.
Finalmente, veniva trasportata da un sentimento potente, anche se quel sentimento era l'odio. E tra l'odio e l'amore – così aveva letto – non c'è che un passo.
* Nelle citazioni riportate, non ci sono i riferimenti alle pagine, perché ho ascoltato il libro su Audible.
Katia Ciarrocchi
