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Epepe, di Ferenc Karinthi, edito da Adelphi e recensito da Katia Ciarrocchi

Epepe, di Ferenc Karinthi, edito da Adelphi e recensito da Katia Ciarrocchi

Epepe – Ferenc Karinthi – Adelphi – Pagg. 217 – ISBN 9788845932250 – Euro 13,00



Fin dalle prime righe sono precipitata in un mondo sconosciuto, osservato da lontano mentre cercavo un appiglio, inciampavo e mi perdevo.
Epepe di Ferenc Karinthy è un romanzo che non ti accoglie, ma poi ti cattura e ti rinchiude in un labirinto di cemento, suoni incomprensibili e folla anonima.
La storia segue Budai, eminente linguista, uomo abituato a muoversi con sicurezza tra lingue e culture, ma basta un volo sbagliato per precipitarlo in una metropoli sterminata, senza nome, dove il linguaggio non è più un ponte, ma un muro. Non riconosce le lettere sui cartelli, non riesce a decifrare le parole, e persino i gesti sembrano appartenere a un codice segreto, la città lo inghiotte, ci sono palazzi smisurati, strade senza orizzonte e una folla che lo urta senza guardarlo.
C'è un solo volto che rompe l'anonimato una giovane operatrice d'ascensore, dal nome incerto: Epepe, o forse Bebe, Tetete. Una presenza fragile e sfuggente, che diventa per Budai un punto di riferimento, seppur evanescente, in quell'universo estraneo. Il protagonista si trova dentro una città che non concede tregua, la sua vita scivola via, e lui scende sempre più verso l'emarginazione, trascinato in una spirale di isolamento che ne erode lentamente l'identità.
Karinthy costruisce un romanzo senza coordinate geografiche o temporali, eppure incredibilmente realistico. L'angoscia che produce non è quella del pericolo immediato, ma del silenzio, un silenzio che non è assenza di rumore, anzi, la città è un ronzio continuo, ma assenza di significato. Il vero orrore non è non essere ascoltati, è non poter essere compresi.
La lettura di Epepe è un'esperienza quasi fisica, si sente il peso della folla che schiaccia, il fiato corto negli spazi stretti e la stanchezza di un dialogo che non inizia mai. E quando la speranza affiora, in un incontro, in un'idea di fuga, Karinthy la lascia svanire con naturalezza, come sabbia tra le dita.
Geniale è la capacità dell'autore di tenere il lettore prigioniero nello stesso stato del protagonista. Non ci sono spiegazioni, non ci sono aperture, è un esperimento radicale, togliere a chi legge l'appiglio della lingua, costringerlo a percepire il mondo come puro enigma.
Alla fine, Epepe non si “capiscenel senso tradizionale, ma si vive. È un libro che resta addosso per il vuoto che lascia, per la consapevolezza di quanto la nostra identità sia fragile quando la parola non basta più.



Katia Ciarrocchi


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