Il canto delle lavandare
di Renzo Montagnoli
Andar per campagna in questi
giorni freddi
che di poco precedono il Natale
é un'avventura, specie se come
oggi
si stende fitta la padana nebbia
a celare campi arati
e prati d'erba scolorita,
ma val la pena di girovagare
in un mondo senza luce e senza
suoni
che tanto invita a fantasticare.
Ed é il ricordo di tempi andati
che a tentoni mi conduce alla
roggia
dove, da troppi anni ormai
passati,
stavano a faticare le lavandare.
E' forse una nenia, una cantilena
che là mi richiama, voci velate
che si perdono nella fredda
bruma.
Ed è come un incanto riudire quei
suoni,
immaginare un tempo che é stato
di cui non resta che il ricordo
di grossi deretani proni sulla
riva
in alternanza mossi dalla ribattuta
sugli scanni
per il risciacquo in acqua gelida
dei panni altrui.
Il canto lento, una nenia
sfibrante
mi rammentava la realtà di ogni
giorno,
di quelle povere donne a faticar
anche d'inverno
con i geloni alle mani per trarne quel tanto
da far quadrare il magro pranzo
con l'altrettanto magra cena.
E il più delle volte il poco
guadagno era preda dei mariti
buoni solo a spendere all'osteria
per una miseria
che poco a poco li portava via.
Anche le lavandare,
per combattere il freddo,
di tanto in tanto sì attaccavano
al fiasco
e il canto allora si faceva roco,
quasi sguaiato,
e non di rado scollacciato.
Ma sotto il Natale, benché fosse
freddo,
benché il gelo forasse le ossa,
il repertorio cambiava
ed erano temi struggenti
lamenti d'infelici
che in una rinascita cercavano
speranze
per una vita meno grama.
Non erano urla, erano solo
invocazioni sussurrate
di donne sfinite
che cercavano un domani migliore.
Le ascoltavo commosso
e sentivo che il Natale
non era solo una festa,
ma un sogno da cui lasciarsi
cullare
per non sentire freddo e fame,
per credere in un futuro più
umano.
Da La pietà