La lunga strada bianca
Mancava
poco a mezzogiorno e, risalite le brume del mattino, la piana era completamente
inondata dal sole, che, riflettendosi sulle armature, faceva alzare improvvisi e
repentini bagliori. Lo spettacolo era impressionante e affascinante al tempo
stesso: uno di fronte all'altro stavano i due eserciti, inquadrati
ordinatamente in attesa dello scontro. Le prime file
erano occupate dalla fanteria, più dietro venivano gli arcieri e subito dopo la
possente cavalleria.
“L'attesa
è peggio della battaglia, ma spero veramente che sia l'ultima. Per un povero
fante come me, servo in pace e servo in guerra, non ci potranno mai essere
onori, anche se all'alba il Principe Venceslao ci ha più volte gridato che
avremo onore e gloria, ma sarebbe già tanto se riuscissi a sopravvivere. Poi
abbiamo assistito tutti alla messa, con il prete che ha invocato la benevolenza
di Dio per assicurarci la vittoria. Anche dall'altra parte ci saranno state le
stesse parole, le medesime preghiere, un'uguale invocazione. Quel che è certo è
che se Dio è in ascolto si trova in un bel dilemma: se favorisce l'uno,
scontenta l'altro. Però se Tu sei sopra di noi, ti chiedo solo di salvarmi dal
pericolo, mio Dio, e
ti prometto che andrò a messa tutte le domeniche e che tutti gli anni farò
parte dei pellegrini che, valicando le montagne, percorreranno la lunga strada bianca che
porta al Santuario della Madonna dei Caduti.”
Improvvisamente,
si alzò uno squillo di tromba e le truppe iniziarono a muoversi, sempre in
ranghi serrati, dapprima più lentamente, ma poi aumentando gradualmente la
velocità, fino a quando i fanti si misero a correre. In quel preciso istante,
da entrambe le parti dell'opposto schieramento si alzarono sibilanti le frecce,
con un percorso arcuato che le portò a ricadere dall'alto sulla massa
avanzante.
Si
sollevarono gli scudi, ma non tutti furono così lesti e i dardi si infilarono nelle le cotte, penetrando nelle carni, fra le urla di
dolore dei colpiti. Non più di tre volte s'involarono fitte a oscurare il sole,
scoccate dai lunghi archi di duro legno di frassino, ma cominciarono a creare
ampi vuoti nelle file che pronte si rinserrarono. Indi, preceduto da urla
disumane, avvenne l'impatto, un cozzo violento, in un frastuono di scudi che si
urtavano e di spade che s'incrociavano.
“Un
fendente da sinistra, mi scanso, alzo la spada: colpo bloccato! Ma ecco un
altro che cerca di infilarmi con la lancia; mi giro, la punta mi sfiora il
fianco e lui quasi mi viene addosso, ma io affondo la lama, gli passo la cotta,
gli squarcio il ventre. Ritraggo la spada, quasi non respiro, boccheggio, ma ne
arrivano ancora, a destra uno cala la scure, ma lo
scudo mi protegge e lo stendo con un fendente fra il collo e la spalla. Ho la
testa che mi scoppia, il sudore che goccia sugli occhi, che mi appanna la
vista. Una fitta tremenda al braccio e mi cade la spada. Non l'avevo scorto,
perché mi era proprio a fianco. Mi copro con lo scudo, ma lui insiste, sto
crollando sotto i colpi, ormai mi è talmente vicino che sento il suo respiro
ansimante… ma ecco che ho trovato il pugnale, lo estraggo dal fodero e con
tutta la residua forza del braccio offeso lo infilo nella sua gola. Lui mi
guarda sorpreso, mentre il sangue sgorga a fiotti, alza ancora la spada, sbarra
gli occhi e crolla davanti a me”.
Le
fanterie combattevano da almeno un'ora, quando i comandanti ritennero opportuno
di far intervenire la cavalleria. Il principe Venceslao lasciò andare il
falcone appollaiato sul suo pugno sinistro e questo, involandosi, diede il
segnale per l'inizio della carica. I suoi cavalieri si mossero a tenaglia,
dapprima al trotto, e poi, tese le lunghe lance, spronarono i loro destrieri al
galoppo.
L'avversario
non fu da meno e, pur disponendo solo di cavalleria leggera, la dispose in modo
da costituire una manovra accerchiante. Il minor peso ebbe questa volta facile
gioco della lentezza del nemico, investito ai fianchi nel momento in cui non
era ancora in grado di dispiegare la sua grande forza d'urto. Nulla poterono le
armature e le analoghe protezioni dei destrieri contro i giavellotti che i
cavalieri avversari scagliavano con precisione inaudita.
Quella che
per il Principe Venceslao doveva essere la mossa conclusiva si rivelò un doloroso
e tragico fallimento.
Ovunque si
vedevano armati sbalzati da sella, cavalli che precipitavano rovinosamente al
suolo, spesso schiacciando chi li montava, in un polverone che come una nebbia
aveva invaso tutta la piana. Lo scenario era di una indescrivibile
ecatombe: qua un cavaliere che moriva soffocato dal suo sangue, là un altro con
conficcato nel petto un giavellotto, ancora in sella, ma già morto. E su tutto
sempre le urla, i clamori, le imprecazioni che coprivano i lamenti. Quando
esaurito il loro compito i cavalieri avversari si
volsero ad attaccare la fanteria, il Principe si allontanò velocemente dal
campo, seguito dalla sua scorta, lasciando i suoi uomini alla mercé del nemico.
”La
cavalleria! La cavalleria! Ci viene addosso: la partita è persa e forse anche
la vita. Se riesco a uscire da questa bolgia scappo, fuggo con la poca forza
che mi è ancora rimasta!
Ho
recuperato la spada, ma fatico a tenerla in pugno. Una spallata a questo, una
spinta a quest'altro, sto uscendo, forse ce la faccio. Ecco, sono fuori, mi
butto a rompicollo a sinistra. Ahimè che dolore! Non respiro più: è stato un
giavellotto, dritto nella schiena. Non riesco più a muovermi, cado, mi sento
mancare.”
Lo scontro
era durato in tutto un paio d'ore, un tempo interminabile per chi era rimasto
là fino alla fine, e mentre i vincitori alzavano al cielo i loro urrah, il Principe Venceslao già mercanteggiava con il suo
avversario la libertà e il mantenimento del suo rango.
Le
trattative, come si conveniva fra potenti, si svolgevano come se si stesse
discutendo del normale regolamento di un affare: nessuna parola, nessun
pensiero per le migliaia di morti che con il loro sangue inzuppavano il terreno
della piana. Esseri inferiori erano da vivi, e ancor meno erano ora da morti,
senza più nessuna utilità.
Intanto i
cerusici s'aggiravano nel carnaio, insieme ai monatti, questi ultimi intenti a
recuperare i morti e ad accatastarli, non senza averli prima spogliati di ogni
avere, compresi i calzari.
“Mi sto
riprendendo, devo essere svenuto; chi c'è lì a un palmo dal mio naso? E' il
viso di un nemico, ferito come me; anche lui non riesce a muoversi e mi fissa.
Cerca di dire qualche cosa, mi pare che voglia dell'acqua, ma non ne ho nemmeno
per me e la sete sta diventando insopportabile, più ancora del dolore che mi
provoca la ferita. Che hai da guardare? Sono un tuo nemico, ma non sono in
grado, e non ho nemmeno più voglia di farti male.
Soffri
anche tu, vedo. Non guardarmi con quegli occhi imploranti! Non posso aiutarti, nessuno
ci può aiutare. Se le ferite non sono fatali, e se passa il cerusico, forse
abbiamo una speranza. Non so l'ora, ma il sole mi sembra che vada calando e se
non arrivano a soccorrerci prima che faccia buio
saremo in ogni caso morti; con le tenebre usciranno i lupi dei boschi, gli
spiriti maligni delle piante e ci finiranno loro.”
Nella luce
del tramonto si stagliavano le immagini delle cataste su cui venivano
distesi i corpi praticamente nudi, tutti con i segni della loro morte: petti
squarciati, braccia e gambe divelte, teste mozzate, e su tutto si levava il
lamento dei feriti e dei moribondi.
“La
ferita mi fa meno male, anche se mi sembra che il sangue esca ancora, ma mi sta
venendo freddo, forse per
la sera che si avvicina. Il mio nemico è sempre lì che mi guarda, con la bocca
semiaperta che lascia uscire della saliva insanguinata. Ogni tanto sbatte le
palpebre, come se cercasse di dirmi qualche cosa.
Adesso
ha aperto la bocca, si sforza di emettere un suono, ma esce solo un gorgoglio e
i suoi occhi si sono spalancati, guardano fisso, ma non verso di me; ha
un'espressione di stupore, ed ecco che gli esce un rantolo, reclina il capo e
chiude le palpebre. E' morto, ma chissà che vedeva.
Il
freddo aumenta, si fa sempre più buio, non vedo quasi più niente, nemmeno il
suo volto; mi manca l'aria, è tutto nero, no, scorgo una lunga strada bianca
che non sembra aver fine.”
I loro
corpi furono fra gli ultimi a essere raccolti, finirono sulla stessa catasta e
poi accesero i fuochi.