Il cipresso della collina
di Renzo
Montagnoli
L'aveva piantato suo nonno, insieme ad altri tre che non avevano resistito all'arsura di un
estate e al gelo del successivo inverno, lasciandolo solo sulla cima di quella
collina che da un lato guardava la pianura e dall'altro analoghi rilievi, quasi
le onde di un mare d'erba.
Lì aveva
giocato da piccolo, con la fronte imperlata dal sudore della corsa per arrivare
fino in cima; alla sua ombra aveva conosciuto l'amore con Adelina, la prima e l'unica
donna della sua vita; da adulto aveva atteso tante volte il tramonto del sole,
per osservare, sempre meravigliato, l'ombra che saliva da est a rincorrere la
luce dell'incendio che si attizzava a ovest.
E lui il cipresso, in tutti quegli
anni, era cresciuto, era diventato una sorta di agile torre che svettava sulla
cima della collina e che lo rassicurava ogni giorno che nulla era cambiato, che
la vita scorreva tranquilla come il fiume maestoso, più giù, nell'immensa
pianura.
Si erano sposati Tolmino e Adelina e
avevano avuto dei figli, un maschio e due femmine, che fin da piccoli il padre aveva
abituato a giocare all'ombra di quell'albero, ormai
diventato un simbolo di continuità fra più generazioni.
- Allora è deciso, Tolmino?
Il medico
condotto attese la risposta, ma questa sembrava non venire, in una
luce di incertezza come quella di un'alba appena annunciata.
Poi il vecchio sembrò deciso a
rispondere, si sistemò meglio sulla poltrona, si inumidì le labbra e finalmente
si decise.
- Sono scelte che non si vorrebbero
mai fare.
Lavori tutta una vita, pensi solo
alla famiglia, riesci a superare la tragedia della morte della madre dei tuoi
figli, vai avanti anche quando calano le forze, e poi tutto crolla.
- Tolmino, se non fosse per il cuore
malandato che hai, potresti ancora vivere qui da solo, ma metti di star male,
di aver bisogno d'aiuto…
- Capisco, e
infatti mio figlio vuole che vada ad abitare con lui in città, a
chiudermi fra quattro mura.
- Credimi, è la soluzione migliore:
lì potrai essere assistito e avrai anche affetto e la compagnia dei nipotini.
- Sì, questo è vero.
- Allora d'accordo. Domani mattina
Giacomo viene a prenderti.
- D'accordo, se non c'è altro modo.
Il dottor Galliani,
medico condotto del paese, strinse la mano a Tolmino e uscì dalla vecchia casa
colonica.
Fuori si udivano i rumori della
campagna, il pigolio dei pulcini, il lontano rumore sordo di un trattore.
Tolmino guardò la vecchia pendola e
vide che segnava le 5.
L'ora del tramonto si avvicinava e
questa volta non avrebbe potuto mancare, anche perché era stato assente da quell'appuntamento per diversi, troppi giorni, per quel
primo malore che, una volta tornato dall'ospedale, lo aveva costretto a non
curare più i campi, a stare lunghe ore seduto su
quella poltrona.
No, non poteva mancare, perché quella
era l'ultima occasione prima di rinchiudersi fra le mura di cemento di un
appartamento e cercare di indovinare il tramonto del sole fra una selva di
condomini e i fumi densi delle fabbriche.
Si alzò con cautela e restò un attimo
fermo per vedere se le gambe lo sostenevano.
“ Bene,
sto in piedi. Adesso piano piano esco e risalgo la
collina”.
E così fece, e tutto andò bene fino a quando non iniziò la salita, con quel dolce declivio che
ora gli sembrava un muro insormontabile.
Saliva due metri e si fermava, con il
cuore che gli batteva come un orologio impazzito.
Dopo un'ora non era arrivato che a metà della
salita e già il sole, in quella giornata di tiepida primavera, aveva iniziato a
rassegnarsi a continuare a splendere su quel pezzo di mondo e quasi alla
chetichella se la svignava.
“ Non
ce la farò mai. Devo salire più in fretta.”
Tolmino cercò di accelerare, ma ora
il battito del cuore era discontinuo, a volte andava più forte e più spesso
invece rallentava.
Strinse i denti, chiuse quasi gli
occhi, cercò di non pensare ai suoi piedi divenuti di piombo e proseguì.
L'ombra della notte avanzava però
implacabile, indifferente al disperato tentativo di Tolmino.
Lui se ne accorse con sgomento e con
il petto che sembrava quasi esplodergli aumentò il passo e ansante, straziato,
raggiunse finalmente la cima della collina.
Là, per sostenersi dovette
abbracciare il cipresso, affondare il volto in quel verde cupo che gli
graffiava il viso; poi si lasciò scivolare lungo il tronco, fino a sedersi
sull'erba già umida.
Si girò, appoggiò la schiena alla
pianta e con gli occhi annebbiati guardò verso la pianura.
L'ombra lo aveva ormai quasi
raggiunto, celando la visione di case coloniche, di campi arati, delle case del
paese, ma a ovest era tutto un incendio, un rosso che contrastava con l'azzurro
tenue del cielo.
Se da una parte la vita rallentava,
dall'altra traeva ancora vigore, e così nell'ombra cominciavano a udirsi i
versi degli uccelli notturni, mentre a occidente, da qualche parte, un gallo
cantava il nuovo giorno.
L'aria era diventata fredda quasi
all'improvviso e Tolmino cominciò a tremare, avvertì nettamente il gelo che
partiva dai piedi e risaliva lungo il corpo.
Rammentò i tempi passati, si rivide
giocare lì sotto quand'era bambino, gli sembrò di riassaporare il primo bacio
con l'Adelina, in un turbine di immagini che correvano senza mai fermarsi.
Poi l'ombra l'avvolse e, per l'ultima
volta, vide quel che restava di un tramonto: piccole striature di rosso che
andavano lentamente spegnendosi.