Schiumava il mare quel giorno spinto dal libeccio; Alfredo stava sulla
scogliera, incurvato dalla forza del vento, e guardava l'orizzonte, da cui
spuntavano in rapida successione nubi nere, pesanti, cariche di pioggia.
Guardava e pensava; là dove il mare sembrava toccare il cielo c'era la
terra dalla quale anni prima era venuto, povero emigrante in cerca di una vita
migliore.
Ricordava ancora chiaramente l'approdo, il campo profughi, da cui era
fuggito per sentirsi meno disperato in una moltitudine di altrettanti
disgraziati come lui. Aveva vagato in giro per l'Italia, si era adattato ai
lavori più umili, sempre respingendo i facili guadagni di un'attività
disonesta; aveva faticato anche dodici ore al giorno a
raccogliere pomidori per una paga da fame, aveva coabitato in un tugurio per un
affitto sproporzionato. La clandestinità non era stata vissuta, non ne aveva
avuto il tempo: a faticare di giorno ed a cercare di dormire la notte, i piedi
contro la testa di un altro, in mezzo a respiri affannosi, a frasi pronunciate
nel sonno in lingue diverse.
Quanto tempo era stato così? Questo non lo ricordava, ma gli sovvenivano
ancora le paure di essere scoperto ed obbligato a tornarsene al suo paese. Poi,
un giorno, aveva conosciuto, del tutto casualmente, una persona che l'aveva
strappato a quella vita, gli aveva riconosciuto quella dignità di uomo retto e
onesto, mai sopita, ma celata sotto i miseri abiti donatigli da organizzazioni
assistenziali.
Come era accaduto? In un modo estremamente semplice: a un signore, che
scendeva da una bella auto, era caduto, senza che questi se ne accorgesse, il
portafoglio e Alfredo l'aveva raccolto, consegnandolo al legittimo
proprietario. Questi lo ringraziò, fece per dare a Alfredo
una banconota in segno di ringraziamento, quando si fermò; guardò il povero
emigrante e si accorse di avere dinnanzi un essere umano, uno straniero in un
mondo per lui ancor più straniero; decise che l'atto caritatevole non avrebbe
risolto i problemi di quell'uomo e fece la cosa più
saggia che avesse mai pensato in vita sua: gli offrì un lavoro, che Alfredo
accettò senza esitazione, regolarizzò la sua posizione, lo sistemò in un
appartamento decente, e in cambio ebbe tanta riconoscenza come mai si sarebbe
aspettato di avere.
Nacque così un sodalizio proficuo, non proprio un'amicizia,
ma qualche cosa che li univa e di cui avevano entrambi bisogno: per
Alfredo la sicurezza di una vita e per il suo datore di lavoro la certezza di
contare sempre su una persona fidata.
Passarono
altri anni; Alfredo poco a poco, grazie al suo impegno, era riuscito a far
carriera e ora non era più l'emigrante impaurito sbarcato sulle coste italiane,
era diventato un uomo agiato, con pari diritti, avendo ottenuto anche la
cittadinanza.
Avrebbe
potuto tornare al suo paese, di cui sentiva tanto la
mancanza, e vivere bene il resto dei suoi giorni con i risparmi accumulati, ma
lo tratteneva quel sentimento di riconoscenza verso chi aveva creduto in lui.
Erano entrambi invecchiati senza scambiarsi la benché minima confidenza
che potesse fare assurgere il loro legame
all'amicizia, eppure non si sentivano estranei, anzi, più il tempo passava,
maggiore era il desiderio di stare insieme, se pur parlando solo di lavoro.
Negli ultimi tempi era tuttavia cambiato qualche cosa; il padrone,
ammalatosi gravemente, lo volle ancor più vicino a sé; non c'era giorno che non lo chiamasse accanto
al capezzale, senza che gli dicesse nulla, ma solo per averlo vicino.
Poi, quando ormai le condizioni di salute precipitarono, il padrone, con
la poca voce che gli restava gli disse - Me ne vado, amico mio.
Quella frase semplice, breve, sconvolse letteralmente Alfredo: era tutto
un mondo che crollava, ma era anche il riconoscimento di quell'amicizia
che di fatto si era instaurata fra i due.
Al funerale pianse, pianse un caro amico con cui aveva diviso gran parte
della sua vita.
Il vento diventava sempre più forte e faceva vacillare Alfredo, che diede un
ultimo sguardo all'orizzonte, poi disse fra sé - E' tempo di tornare.