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  Racconti  »  Narrativa generica  »  Il matrimonio di Antonia Infante 22/07/2006
 

Il matrimonio di Antonia Infante

 

                        di Renzo Montagnoli

 

 

Antonia si abbandonò sulla sedia, affranta, distrutta. Quella giornata la casa era risuonata come non mai di decine di voci, parenti di cui ignorava l'esistenza erano venuti da luoghi anche lontani, tutto un susseguirsi di frasi, per lo più di circostanza, che l'avevano confusa e tramortita. E come se non bastasse, davanti al feretro, Giovanni e Giuseppe, i due figli gemelli, avevano cominciato ad accapigliarsi per mettere le mani sull'eredità, su quella vecchia casa colonica e sul circostante fazzoletto di terra da cui anni prima avevano voluto andarsene per sporcarsi le mani nelle industrie della città. Non l'avevano nemmeno guardata, come se lei non fosse quella che li aveva generati: un'estranea, o peggio una persona senza il minimo valore.

Ora che tutto era finito, che il marito riposava nel piccolo cimitero del paese, Antonia guardava smarrita le pareti annerite della cucina, la fila delle pentole di rame appese al muro, le mosche che ronzavano sui vetri, mentre l'ultima luce del giorno rischiarava a malapena l'ambiente, in un gioco di chiaroscuri, esaltando ancor di più quel senso di solitudine che si sentiva addosso.

- Giacomo – chiamò, cercandolo con lo sguardo fino a quando non lo vide rincantucciato in un angolo, assorto, con quei suoi occhi che sembravano smarriti.

- Giacomo! – gridò nuovamente, ma il ragazzo non rispose.

Allora si portò le mani alla testa, le impresse sui capelli troppo presto imbiancati e nel buio incipiente la sua mente corse al ricordo.

 

- Vedi Antonia, ragazza mia, la tua non è una bella situazione.

Credimi, spesso a voler far di testa propria, si finisce con lo sbagliare. Capisco che certe cose non fanno piacere, che tuo padre non avrebbe dovuto toccarti, né farti certe cose, ma tu, invece che dirlo solo a me, sei andato a spifferarlo al maresciallo e così adesso tu e la tua famiglia ne pagate le conseguenze. E poi, il peccato più grave che hai commesso, e che Dio ti possa perdonare, è l'esserti liberata anzi tempo di quella creatura che portavi in grembo.

- Padre, e che avrei dovuto fare? Tenermi il frutto di una violenza?

- Tutto quello che accade è nel segno del Signore e ti dovevi rassegnare; invece, adesso, tu e i tuoi otto fratelli siete lì a patir la fame con vostro padre in galera. E tu, che pur saresti in età di maritarti, non troverai qua mai nessuno che ti vorrà per quell'infamia che ti porti addosso.

Antonia stava in silenzio e piangeva.

- Io che sono il tuo parroco e che ti voglio bene ho trovato però la soluzione del problema, l'unica possibile.

Vedi, mi ha scritto il curato di Bertosso, un paesino lungo il Po, per dirmi che un suo bravo parrocchiano, buono, timorato di Dio, una bella posizione economica, dacché gli è morta la madre è rimasto solo e sentirebbe la necessità della compagnia di una donna.

Ha intenzioni serie, serissime, ed è disposto a sposare quella donna. Per via del lavoro non ha tempo di cercarsela e allora ha demandato tutto, saggiamente, al suo pastore. Antonia, credimi, è un'occasione unica! Ce ne dici?

Antonia non rispose, ma pensò alla fame di ogni giorno, agli sguardi di disprezzo della gente del suo paesino calabro, e assentì con il capo.

- Brava, ne ero sicuro, tanto che gli ho già risposto di aver trovato la persona giusta.

E così il giorno seguente, dopo aver guardato per un'ultima volta i suoi fratelli, salì sul treno che l'avrebbe portata al lontano Nord.

Fu un viaggio lungo, sulle strade ferrate di un'Italia che era appena uscita dagli orrori della seconda guerra mondiale e solo dopo una trentina di ore, sfinita, arrivò a destinazione.

Sulla banchina sbrecciata della stazioncina Lui l'aspettava; quando scese dalla vecchia carrozza e si guardò intorno smarrita l'uomo si fece avanti.

- Sei tu Antonia?

- Sì.

- Va bene; seguimi, io sono Angelo.

Non disse altro per tutto il percorso che fecero, a piedi, dal paesino fino alla casa colonica.

Appena arrivarono, Angelo si limitò a indicare una pila di piatti da lavare, poi le si buttò addosso, le strappò le vesti e sul tavolaccio della cucina la fece sua. Non fece in tempo a rivestirsi che cominciarono a piovere gli ordini ”Prepara la cena! Ci sono da mungere le vacche! E così via”.

Si sposarono dopo tre giorni, con una cerimonia semplice, con ben pochi intimi e le parole del prete sul reciproco rispetto le sembrarono l'unica nota stonata di quella funzione.

Poi cominciarono i giorni, tutti uguali: poche le ore di sonno e di riposo, molte, troppe quelle di lavoro. Già all'alba nella stalla, poi di corsa a preparare la colazione per il marito, quindi a faticare nei campi, ad affannarsi intorno ai fornelli, e infine alla sera a subire le pretese del marito, sempre senza nessun rispetto. La domenica poi era peggio del solito, perché lui ritornava dal paese ubriaco e prima di prenderla la picchiava, botte sorde, pugni calati all'improvviso sulla schiena, calci, e, quando si lamentava, quella frase che più di ogni altra cosa la feriva “Taci, pezzente che senza di me moriresti di fame!”.

Nemmeno la nascita dei due gemelli portò qualche sollievo, anzi le cose peggiorarono, perché Giovanni e Giuseppe presero tutto il carattere dal padre e così la prepotenza si moltiplicò per tre.

Quando venne alla luce l'ultimo, Giacomo, Antonia sperò, ma benché diverso dai fratelli, più quieto fin dai primi mesi, alla lunga rivelò un problema tutto suo, con quello sguardo assente, l'assoluto mutismo, la chiusura al mondo. Il medico che lo visitò scosse la testa e disse solo una parola che lei non capì: autismo.

Spesso sembrava che non fosse nemmeno in casa, insensibile a ogni gesto d'affetto, quasi ormai un oggetto.

Gli anni così passarono, senza novità, fino a quando Angelo si ammalò all'improvviso e altrettanto rapidamente se ne andò all'altro mondo.

 

Antonia si scosse dai suoi ricordi di una vita che pensò amaramente che fosse meglio non fosse mai avvenuta. Si alzò, accese la luce e andò allo specchio della credenza. Da fuori giungeva il muggito delle mucche che chiedevano di essere munte, con le mammelle traboccanti di latte. Antonia guardò quel volto segnato dal tempo e dalla sofferenza, si passò le mani sui seni cadenti, chiamò ancora  Giacomo, senza ottenere risposta. Chiuse gli occhi e in quel momento seppe chiaramente che cosa avrebbe dovuto fare. Lasciò la cucina, raggiunse la scala che portava al piano superiore, guardò la trave sporgente e la corda robusta che giaceva lì per terra da tempo immemorabile. Lentamente, con calma, fece il nodo, poi, salita su una sedia, legò la cima alla trave e infilò la testa nel cappio, senza nessuna emozione. Stette un attimo così, chiuse gli occhi, poi diede un calcio allo schienale del suo sostegno; la corda si tese, si serrò intorno alla gola, cominciò a mancare l'aria in una sofferenza crescente. Poi, mentre perdeva i sensi, le sembrò di venir sollevata e che il dolore sparisse del tutto.

Una voce martellava le sue tempie, un suono sconosciuto, un'invocazione ignota, mentre lentamente andava riprendendosi; mani leggere le sfioravano i capelli, le carezzavano le guance, gocce calde le cadevano sul viso.

Dov'era mai? In Paradiso forse? No, dalla molla che le premeva sui reni doveva essere coricata sul vecchio divano.

Tutta era così confuso, tutto era così incredibile che non sembrava vero e il suono martellante poco a poco divenne più comprensibile, era un “mamma” ripetuto con angoscia. Aprì lentamente gli occhi e vide subito il volto disperato di Giacomo che si affannava per aiutarla. Strinse a sé quel ragazzo ritrovato, assaporò il battito del suo cuore, si abbandonò estasiata a quel “mamma” ripetuto ossessivamente e per la prima volta sentì forte il desiderio di vivere.

     

 

     

 

 
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