Racconto
per il Natale 2010
di
Renzo Montagnoli
Stava appollaiato sulla vecchia sedia di paglia, con lo schienale
appoggiato allo stipite della porta, fuori di casa, al freddo che di ora in ora
si faceva più pungente. Ogni tanto lo scuoteva un brivido, nonostante gli abiti
pesanti, i pantaloni di spesso fustagno, il maglione di lana grezza, il
giaccone di montone che lui stesso si era confezionato. Sembrava che il gelo
gli salisse dai piedi, nonostante la paglia che aveva pressato negli stivali.
Sì, indubbiamente la giornata era fredda, ma non voleva rientrare, lui, che per
quasi tutta la vita, era stato all'aperto, estate e inverno, sole e pioggia,
perfino neve, ad accompagnare le greggi, per monti e per valli. Vita dura,
indubbiamente, ma quella del pastore era un'esistenza libera, un lungo
pellegrinaggio da un campo all'altro, un itinerario che lo riconduceva, a volte
dopo anche una decina di giorni, alla casa, a queste quattro mura ora silenziose,
prive dei belati degli armenti. Giacobbe era vecchio, di quell'età in cui non
si avverte più il tempo che trascorre, ma ci si accorge solo di quello passato,
e non faceva più il pastore, così che lui e la sua vecchia ora riposavano con
quel poco che avevano messo da parte nei lunghi anni del lavoro.
- Vieni dentro, fa freddo, e tu hai dolori.
- Non è caldo, ma nemmeno freddo, e poi oggi sto bene.
Sistemata in questo modo l'apprensione della moglie, Giacobbe
ritornò al suo unico passatempo, a quel guardare verso l'orizzonte per veder
scorrere dinanzi agli occhi, in quell'immensità senza fine, le immagini dei
grandi spazi della sua vita.
Di quegli itinerari percorsi con le greggi serbava una quasi
incredibile memoria, di passi lenti lungo mulattiere
con la bisaccia a tracolla, di quelle frequenti soste in cui riposava le membra
e guardando intorno scorgeva sempre cose nuove.
Gli mancava il risveglio sotto la rugiada dell'alba, i profumi
dell'erba erano pure immagini, come se l'olfatto non potesse che essere fermato
con una fotografia. Rivedeva le pecore raggruppate e pronte a sciogliersi per
riprendere il cammino e
un uomo che si stirava le membra, fra uno sbadiglio e l'altro. Poi si partiva e
sfiorando muriccioli di sassi si seguiva il sentiero, il gregge una lunga fila serpeggiante fino ad arrivare al nuovo prato,
dove si procedeva in ordine sparso.
C'erano albe livide di pioggia, ma altre che accendevano il cielo
e con esse il canto degli uccelli salutava il nuovo giorno, accompagnato dal
placido belato delle pecorelle.
L'uomo si sedeva su un masso e osservava il miracolo del sorgere
del sole, con il buio ormai quasi vinto che batteva in ritirata, mentre lontano
il crinale dei monti disegnava una linea spezzata, quasi confusa con il cielo.
Era un'ora stupenda, ma tutte le ore del giorno lo erano, e mai
che una volta capitasse di pensare alla monotonia. No, l'uomo sapeva guardare e
ogni volta lo stesso paesaggio cambiava, per il colore dell'erba, più verde in
primavera, più secca nell'estate, per il canto degli uccelli, per tutti quei
rumori della natura mai sgraziati, mai in contrasto, in un concerto ogni volta
irripetibile.
L'uomo ora gli voltava le spalle e a Giacobbe venne naturale
chiamarlo, un ehi appena pronunciato, talmente basso da sembrare più un'idea
che un suono. Ma lui lo sentì e si voltò; il sole gli illuminava il volto, lo
incorniciava, un'immagine netta, distinta, il Giacobbe di tanti anni fa.
Sorrideva e sembrava felice, sì perché quell'essere parte del
mondo, quel divenire ogni giorno viaggiatore della vita dava un senso di
infinita serenità.
A Giacobbe si inumidirono gli occhi, perché ogni volta che si
rivedeva il ricordo diventava evanescente e tutto sfumava nella nebbia del
tempo.
Si era fatto buio e la moglie lo invitò nuovamente a rientrare; si
alzò con fatica dalla vecchia sedia e si rinchiuse in quelle quattro mura.
- Cena speciale, è la vigilia di Natale.
- Lo so.
- Insomma, non proprio una roba da ricchi, ma un po' di più di
quel poco che è il solito.
Cenarono, al caldo del focolare, che rischiarava la stanza insieme
alla luce tenue del lume a petrolio.
Poi, mentre lei sparecchiava, lui volle uscire di nuovo.
- C'è freddo, non andare, e poi che vai a fare?
Giacobbe non rispose e uscì.
Si rimise sulla vecchia sedia e osservò il cielo stellato.
Quante volte l'aveva visto, quando se ne stava nello stazzo con il
gregge, avvolto in una coperta a cercare il sonno.
E magari il chiarore della luna lo teneva sveglio, a fantasticare
su quel mondo così vicino che pareva di poter toccare con una mano. La notte,
silenziosa, sembrava salire dalla terra, avvolgendo tutto, sempre più in su, finché trovava l'invalicabile barriera di quel lume,
che la fermava, svelandone i contorni, dai grigi più tenui a quelli più
marcati.
Allora, a quei tempi, prima di chiudere gli occhi correva il
pensiero alla casa, alla moglie, e mentre le palpebre si abbassavano immaginava
che fossero le sue mani dalle dita affusolate che scivolavano lungo la fronte,
indugiando sui sopracigli, per poi lievemente serrargli gli occhi.
Fu con una certa sorpresa, quindi, che avvertì chiaramente sulla
sua fronte le mani calde della consorte.
- Che guardi, Giacobbe, a cosa pensi
tutto il giorno?
- Guardo il cielo e mi viene memoria del mio passato.
- Abbiamo fatto una vita spesso lontani; ti sarai chiesto cosa
facessi io quando non c'eri, come io mi chiedevo di
te.
- Stavi al telaio, tessevi come Penelope nell'attesa del mio
ritorno.
- Tu camminavi con le greggi, da un posto all'altro; io sempre
ferma e tu sempre in moto.
- Vero.
- Perché non guardiamo insieme il cielo?
- Prendi una sedia, accostati e guardiamo.
Le stelle s'erano accese, tutte, anche la più piccina, e insieme
iniziarono a osservarle.
- Che strano - disse Giacobbe - guardo quella là, sulla sinistra,
quella che pare che s'accenda e si spenga e vedo una donna china sul telaio,
che ogni tanto butta un occhio alla finestra, sperando che il marito sia di
ritorno.
- Giacobbe, è incredibile, ma se mi sposto di poco in basso, c'è
quella piccolina che si apre in un prato verde, dove, circondato dalle sue
pecore, un uomo, con un filo d'erba in bocca, ammira la processione di una
colonia di formiche che si snoda dal nido al torsolo di mela che lui ha appena
gettato.
- In quella accanto, a destra, c'è una donna che si corica sola
nel letto, che allunga una mano a sentire il freddo del lenzuolo libero al suo
fianco.
- Un po' più giù, quella più grossa, il risveglio di un uomo in
uno stazzo, gli sbadigli, gli occhi ammirati per
un'alba radiosa.
- Se mi sposto ancora a destra, in quella piccina
piccina vedo una donna che si alza, che guarda
il letto vuoto accanto a lei e che sospira.
- Senti, Giacobbe, proviamo a guardare
entrambi la stessa stella, magari quella là, quella più luminosa.
- Sì, va bene.
- Io vedo…un abito bianco.
- Anch'io.
- Una chiesa un giorno di festa, un matrimonio.
- Gente che ride, che balla.
- Poi, l'uomo e la donna che prima abbiamo visto nelle altre
stelle si coricano assieme.
- E' vero, ma sarà una prima notte di nozze quasi in bianco; ricordi
che una pecora doveva partorire? Mi sono alzato e sono rimasto con lei
parecchio, fino a quando è nato, era l'alba.
- E tu sei entrato in camera da letto con in
braccio l'agnellino; non sapevo se baciare lui o te.
- E adesso lo sai?
Fu un bacio lungo, un amore col tempo divenuto affetto che ritornò
a sbocciare in quella notte di Natale.