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  Racconti  »  Storie di paese Prima Serie  »  Il padre 29/01/2006
 

- Come mai è chiusa l'officina del Guercio?

- C'è sua madre che sta male.

- E' grave?

- Ormai  è solo questione di ore, se non è già morta. E' attaccato a sua madre, visto anche che non ha mai avuto un padre.

E infatti la povera donna morì quello stesso giorno, lasciando l'unico figlio in uno stato di profondo dolore.

Conosciuti com'erano, lei e il Guercio, al funerale andò tutto il paese. La cerimonia fu semplice, anche se il feretro fu portato in chiesa, circostanza non strana, data la nota religiosità della defunta in contrasto con l'agnosticismo del figlio.

Inginocchiato in prima fila, apparve ai più un Guercio ben diverso dall'uomo energico, dal capo popolo, nonché ex partigiano, che tutti ben conoscevano. Il volto scavato, l'unico occhio spento, i singhiozzi a stento trattenuti, denotavano un profondo stato di smarrimento che lo caratterizzò anche nei giorni immediatamente successivi, tanto che sulla porta dell'officina venne affisso un cartello con cui si annunciava la chiusura a tempo indeterminato per il grave lutto.

Gli amici, i compagni di partito, cercarono di alleviare le sue sofferenze, ma si rivelò tutto inutile: il Guercio, oltre all'occhio, sembrava aver perso anche la ragione. Se ne stette per un paio di giorni chiuso in casa, sordo a ogni sollecitazione, poi una mattina qualcuno lo notò alla stazione, vestito nel migliore dei modi, mentre attendeva il treno per la città.

Camminava su e giù per il marciapiede, pensando e ripensando alle ultime parole della madre.

Quello che di più l'aveva afflitto, nella vita, era stato il non avere un padre, tanto che il portare il cognome della madre gli sembrava un viatico insopportabile, di fronte a certe domande impertinenti come possono fare solo i bambini, quando andava a scuola alle elementari, e ricordava bene quella sua risposta imbarazzata e quasi sciocca: io non ho il papà; c'è chi ce l'ha e c'è chi non ce l' ha.

L'imbarazzo di non avere un padre lo tormentò ancor di più nell'adolescenza, tanto che decise, per trovare un genitore al di sopra di ogni sospetto, di andare in seminario per farsi prete. Ma anche lì le cose non andarono meglio, con quel superiore che ogni volta che lo rimproverava per qualche mancanza cominciava sempre il discorso con un:

- Caro  ragazzo… non mi ricordo mai il cognome… ah sì, ora rammento, è lo stesso di tua madre!.

E indubbiamente quella ripetuta presa per i fondelli ebbe la sua parte nella decisione di buttar via la tonaca e di laicizzarsi completamente.

In seguito le cose andarono meglio, ma la questione era sempre ben presente, tanto che non poche volte si era rivolto alla madre per conoscere il nome del padre, ottenendo però sempre un deciso rifiuto.

Tuttavia, quando la povera donna era quasi in agonia, con le poche forze rimaste e con un esile filo di voce aveva mormorato quel nome, e allora il dolore e l'angoscia si erano mescolati all'emozione, in uno con lo strazio di aver ritrovato un padre nello stesso momento in cui perdeva la madre.

Il treno finalmente arrivò e il Guercio vi salì, provando un brivido di emozione: fra poco avrebbe conosciuto suo padre di persona.

Quando fu in città, il passo veloce che prese lo mise ulteriormente in affanno. Nei due giorni precedenti aveva fatto delle prudenti ricerche, in modo da sapere dove avrebbe potuto trovare il genitore, e ora che si avvicinava alla meta la curiosità sembrava soffocata dal timore dell'ignoto.

E così arrivò davanti alla clinica “Mater Dei”, istituto privato per l'assistenza agli anziani di non trascurabili possibilità economiche.

Gli si fece incontro una suora, dalla veste candida, e gli chiese che cosa desiderasse.

- Vorrei far visita al signor Antonio Guerra.

- Lei chi è, come si chiama?

- Sono… - e titubò, poi riprese: – sono un parente. Mi chiamo Annibale… Annibale Chiocchetti.

- Si accomodi, le faccio strada.

Si incamminarono per un lungo corridoio, sul quale si affacciavano diverse porte, di cui alcune aperte. Il Guercio ogni tanto dava un'occhiata: si intravedevano dei piccoli ambienti, ben tenuti e ordinati, in cui vivevano la loro fine uomini che immaginava fossero stati, in passato, potenti e forti, e che ora erano ridotti a ombre mute.

Arrivarono alla fine del corridoio, girarono a destra, e alla prima porta che trovarono la suora bussò.

- Signor Guerra, ci sono visite.

Nessuna risposta.

- Le ripeto che ci sono visite!.

E finalmente si udì un flebile avanti.

La suora salutò il Guercio e ritornò indietro; mentre lui, quasi tremando, si trovò a varcare quella soglia.

Anche questo ambiente era piccolo: un letto, un comodino, uno scrittoio, un armadio e, accanto alla finestra, una poltrona su cui stava seduto un uomo dai capelli bianchi.

Questi si volse al Guercio e gli chiese:

- Voi chi siete?

Quel “Voi”, ormai desueto e tipico di una certa epoca, lo fece trasalire.

- Io sono.., mi chiamo Annibale Chiocchetti. Questo le dice nulla?

- Non mi pare.

- E Armida Chiocchetti, il nome di mia madre, neanche questo le dice nulla?

Il vecchio cambiò espressione e cominciò a innervosirsi.

- Sì, adesso ricordo: l'Armida, una gran bella donna; era una delle mie cameriere. Poi dovetti licenziarla, perché era rimasta incinta. Che fa di bello, ora? Ah, non sarete venuto per chiedermi dei soldi? Le ho dato a suo tempo tutto quanto le spettava!

L'occhio del Guercio sprizzò quasi scintille e avvertì chiaramente che la rabbia cominciava a prendere il sopravvento sull'emozione.

- E' morta, dopo una vita di lavoro e di stenti, a crescere un figlio che non aveva un padre, quel padre che ora sta davanti a me.

Attese la risposta del vecchio che lo guardava con un'espressione fra lo stupito e l'adirato.

- E così, voi sareste mio figlio? Potrebbe anche essere, perché ai miei tempi di donne ne ho avute tante e mi sono dato da fare.

Il Guercio lo guardò sbalordito: si era immaginato, in treno, che suo padre si sarebbe commosso alla notizia di aver ritrovato un figlio, e l'avrebbe abbracciato, insomma avrebbe dimostrato per una volta quell'affetto che non gli aveva mai riservato, e ora invece, questo vecchio magro e canuto accennava addirittura alla possibilità di aver seminato figli qua e là.

- E se anche fosse? Non sareste certo un figlio come gli altri, che sono nati da un matrimonio consacrato. Sareste assolutamente di nessun conto. Tengo a precisare, però, che io sono un buono e che non ve ne faccio una colpa di essere un bastardo, anzi se avete bisogno di qualche cosa, tipo una raccomandazione per un posto, posso darvi una mano.

- Non ho bisogno di nulla. Ho sempre avuto necessità di un padre, ma di uno degno di essere chiamato tale e non di uno come lei. Credevo che l'aver ritrovato un padre sarebbe stato un motivo di gioia, ma mi pento di essere venuto.

- Che ho detto di male? Non mi direte di essere uno di quei sciocchi sovversivi di comunisti che credono di cambiare il mondo? Quando c'era “lui” era diverso e finalmente noi veri uomini abbiamo potuto dimostrarlo.

La porta che sbatté fece cadere a terra un piccolo busto di bronzo con l'immagine del duce. Il vecchio si chinò a raccoglierla, mormorando – Che epoca! Se n'è andato senza nemmeno salutarmi.

Il Guercio, più che andarsene, fuggì da quel posto e raggiunse velocemente i giardini, dove, seduto su una panchina e al riparo da sguardi indiscreti, pianse amaramente.

Ritornato al paese, si precipitò al cimitero, dove, sulla tomba della madre, disse fra sé:

-         Mamma, quanto è bello il cognome Chiocchetti!

Il giorno dopo l'officina riaprì e tutti si rallegrarono nel vedere il Guercio del suo solito umore.

 

 
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