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  Racconti  »  Storie di paese Seconda Serie  »  Il giorno di Natale al paese 21/12/2016
 

Il giorno di Natale al paese

di Renzo Montagnoli



Mi piace ogni tanto tornare con la mente al passato, a certi suoi aspetti, a come si viveva, a volte peggio di adesso, a volte meglio. In particolare c’erano dei giorni, cosiddetti canonici, in cui tutto pareva trasformarsi, e uno di questi era quello del Natale.

Ero alle elementari e nella settimana che precedeva la festività, una settimana ridotta, perché cominciavano le vacanze, la maestra non si stancava di ripetere: “Bambini, il 25 é Natale e pertanto quel giorno dovete essere più buoni. Rispettate il papà, la mamma, i fratellini, le sorelline, i nonni, ecc.”. Quello che mi impressionava nel discorso era quell’eccetera e mi domandavo a chi si riferisse; ci costruivo un castello, in cui figuravano zii, zie, prozii, prozie, cuginetti di non so quali gradi, insomma una sorta di farneticazione in cui l’impegno maggiore era ricordarsi come si chiamassero quei parenti, tanto più che appena ricordato un nome, nel tentativo di estrarne un altro dalla memoria, finivo per dimenticarmelo. Diventava quasi uno scioglilingua, di cui mi liberavo mandando tutti al diavolo e quindi finendo con l’essere meno buono.

All’epoca non si era ricchi come adesso, diciamo pure che si era poveri, perché il famoso boom economico non era nemmeno nelle previsioni e c’era il lungo e faticoso lavoro di ricostruzione di un’Italia distrutta dalla guerra. Non si mangiava tanto, anzi ci si nutriva poco, fatta eccezione per il Natale. Allora si grattava il fondo del barile, cioè dei pochi risparmi, e nelle case era tutto un preparare i tortelli di zucca, gli agnolini, il brodo con il cappone, ingredienti per una mangiata pantagruelica. Se la vigilia si cenava di magro, cioè più o meno la cena di tutti i giorni (e c’era chi la saltava, potendosi permettere solo il pranzo), il giorno di Natale le tavole traboccavano, ma prima c’era un’incombenza a cui non era possibile mancare: la Santa Messa. Quel giorno in chiesa c’erano tutti, dalle assidue beghine che già erano state presenti a quella della mattina presto, ai compagni che, nell’occasione, si toglievano il fazzoletto rosso e si vestivano da borghesi, dai baciapile inveterati agli atei, che in un sussulto di dubbio dovevano aver pensato che in fondo una messa non era un peccato.

Quindi un pienone completo, un’adunata oceanica di mussoliniana memoria, pochi quelli che riuscivano a trovare una panca o una sedia, tanti e pigiati quelli che restavano in piedi. Nell’occasione le famiglie danarose sfoggiavano un abito nuovo o addirittura, caso raro, ma capitava, una pelliccia, e allora entravano per ultime percorrendo il corridoio centrale come in una sfilata di moda, mettendo in mostra la nuova collana, o gli orecchini appena ricevuti in dono. Lentamente, come in processione, si avvicinavano all’altare e subito dai primi banchi si alzavano quelli che li avevano occupati fin dalla prima messa e che avevano tenuto il posto per i “signori” in cambio di cento o duecento lire.

Ora la Messa poteva cominciare, ma in tutto quell’assembramento, che pareva denotare una fervida religiosità, non pochi pensavano a ben altro e io li vedevo dall’altare, dove da buon chierichetto aiutavo il sacerdote nella funzione. Non era ignoto il fatto che la signora Egle, consorte del ricco cavalier Lisandri, soprannominato il cappone per via – così si diceva – di una innata incapacità a congiungersi con la moglie, si consolasse in altro modo; non era né giovane, né bella, però pagava e guarda caso se ne stava a contrattare con Il camaleonte, al secolo Gerolamo Corbezzi, giovanotto di bell’aspetto, ma senza arte né parte, però capace di mimetizzarsi perfettamente quando suo padre lo cercava per fargli fare qualche lavoro. Non capivo cosa si dicessero, perché parlavano anche piano, ma una cosa era certa: l’affare andava puntualmente in porto e il più soddisfatto sembrava il marito, che con un aria beata e da bue fissava l’altare. E che dire dell’Ornella Galavotti, ragazza all’apparenza insospettabile, ma sempre alla ricerca di un nuovo uomo; mio papà diceva che era una ninfomane, ma non capivo cosa significasse. Più in fondo, vicino alla porta, pronto a scappare, c’era “mano morta”, l’ufficiale di posta così chiamato perché attratto irresistibilmente dal corposo deretano di qualche signora. Non c’era una Messa di Natale in cui non si udisse il suono sonoro di uno schiaffo e non si notasse subito dopo che lui guadagnava in fretta l’uscita. Una volta gli andò male e in quell’occasione perse il vizietto, perché anziché lo schiaffo, si prese una gragnuola di pugni dal marito della signora oggetto delle sue attenzioni; in seguito chiese il trasferimento all’ufficio di un altro paese e fece bene, perché già in giro correvano voci di una denuncia nei suoi confronti. Insomma, fra queste amenità, la Messa arrivava alla fine e allora si spalancava la porta e la gente cominciava a defluire, ma non andava subito a casa, si fermava sul sagrato a chiacchierare un po’. Era il momento delle maldicenze in cui eccellevano le beghine e i baciapile, veloci nel tirare il sasso, nascondendo subito la mano. Ce n’era per tutti, compreso il prete e mi chiedo ancor oggi se in confessione gli dicessero di questi loro peccati, anche se ho i miei dubbi, vista la perniciosa riservatezza con cui sparlavano: “Hai saputo?” E un ammiccamento verso una che usciva di chiesa. “Che non si sappia in giro, fin per carità, ma la figlia di Dolfini é incinta, e non è ancora sposata. Davvero? Ha uno sguardo così pio, va sempre a testa bassa, ma é una puttana. Del resto come il padre, che prima di sposarsi era sempre al casino, quello a Mantova di Vicolo San Longino, con le puttane da quattro soldi. “.

E cosi via fino all’ora di pranzo, quando le vie del paese diventavano deserte.

Grandi mangiate, fino quasi a scoppiare, una lenta digestione da coccodrilli, con tanto di pennichella, ma alle 16 tutti al cinema, beninteso quello parrocchiale, perché in paese non ce n’erano altri.

Ricordo i titoli natalizi: Biancaneve e i sette nani, I dieci comandamenti, insomma pellicole adatte a tutti, ma ciò nonostante l’inesplicabile censura della San Paolo, che noleggiava i film, qualche taglietto lo praticava, magari a una scena con un innocente bacio e allora in sala, dato che per un attimo si interrompeva la sequenza, si udivano i mugugni e spesso e volentieri le bestemmie. In un ambiente non ampio, anche se c’erano platea e galleria, al buio, nel fumo delle sigarette, l’ufficiale di posta si ripeteva e la cosa strana era che se la vittima faceva finta di niente lui si stancava, ma il più delle volte volava un altro schiaffo, accompagnato questa volta da un coro di invettive (porco maiale) che lo seguivano nel corso della sua precipitosa fuga. Al cinema non c’era mai la signora Egle, con ogni probabilità piacevolmente impegnata, ma giustificata dal marito, che chiamava sempre in causa una improvvisa emicrania che le aveva impedito di uscire.

Le pellicole preferite erano quelle di maggior durata, come appunto I Dieci Comandamenti, perché assicuravano il modo per tirare a sera. Si usciva un po’ indolenziti, per le troppe ore seduti, e ci si sgranchiva un po’ nel tragitto verso casa. Una volta arrivati, il tempo era breve per giungere all’ora di cena, con gli avanzi del pranzo, non pochi, anzi tanti, ma la fame era scemata e si finiva con il mangiare più con gli occhi che con la bocca. Due chiacchiere, giusto il tempo per arrivare all’ora di andare a letto e infine un po’ di riposo fra le lenzuola. Prima di addormentarmi mi passavano davanti agli occhi le immagini della giornata trascorsa: il pranzo, con tanto di dolce, il film e sulla scena di Mosè che fa spalancare le acque al mar Rosso mi si chiudevano le palpebre. Ma non le orecchie: dalla strada saliva il canto sguaiato di qualche ubriacone, parole incomprensibili come quelle che possono uscire da una bocca impastata e da un cervello annebbiato. E con questo concerto stonato terminava il giorno di Natale.


Da Storie di paese

 
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