Lavoro
e disoccupazione
di
Renzo Montagnoli
Un
tema caro in modo particolare ai politici, sia che essi siano al
governo, sia che si trovino all’opposizione, è quello
della disoccupazione. E’ evidente l’importanza
dell’argomento perché senza lavoro non si percepisce un
reddito e quindi è impossibile condurre una vita normale. Di
lavoro e disoccupazione si parla spesso in Italia, anzi se ne parla
troppo senza mai risolvere il problema, che è costituito da
una cronica eccedenza delle domande di lavoro rispetto alle offerte.
Ho scritto cronica perché fin dall’avvio del Regno
d’Italia (ma anche prima negli stati e staterelli italiani) le
possibilità di lavorare erano notevolmente ridotte, a causa
soprattutto della mancanza o dell’inadeguatezza dello sviluppo
industriale che faceva sì che il mercato del lavoro fosse
prevalentemente quello dell’agricoltura, un’attività
che al nord era intensiva, mentre in parte del centro e soprattutto
del sud era basata sul latifondo. In ogni caso l’abbondanza di
mano d’opera faceva sì che pochi riuscissero a trovare
un lavoro continuativo, mentre più diffuso era il fenomeno dei
giornalieri. Dopo l’unificazione italiana le migliorate
condizioni sanitarie fecero sì che diminuisse in modo drastico
la mortalità infantile, incrementando così notevolmente
il fenomeno della disoccupazione. Questa, unitamente ad altri fattori
penalizzanti per le classi povere (misere al nord, miserrime al sud)
diede luogo a un massiccio fenomeno di emigrazione; tra il 1861 e il
1915 lasciarono il nostro paese ben 9 milioni di abitanti.
Quando
i fascisti salirono al potere venne fortemente limitata
l’emigrazione, pur senza aumentare i posti di lavoro, anzi con
la politica delle nascite si aggravò la situazione, a cui non
recò beneficio né lo spostamento di veneti nell’Agro
Pontino, né in Libia. Purtroppo, nonostante che gli anni
successivi alla Seconda guerra mondiale con la ricostruzione e il
successivo grande sviluppo economico dessero la parvenza di una
soluzione radicale del fenomeno, l’emigrazione proseguì
e in modo per niente trascutabile. Insomma, fra il 1861 e il 1985
hanno lasciato l’Italia, senza farvi poi ritorno, circa
18.725.000 suoi abitanti, un’intera nazione. Successivamente,
per quanto le uscite alla riceca di lavoro all’estero siano
diminuite, appaiono pur sempre non trascurabili. A livello politico
c’è chi dà colpa di ciò al massiccio
fenomeno dell’immigrazione, ma mente sapendo di mentire, perché
chi arriva, soprattutto dall’Africa, nel nostro paese va a fare
quei lavori, spesso mal retribuiti, che i nostri giovani non vogliono
più fare, in forza anche del titolo di studio conseguito.
Allora, come può essere possibile risolvere una volta per
tutte il problema della disoccupazione? La risposta è
semplice: creando opportunità di lavoro. Per far questo però
è indispensabile che le aziende amplino il loro giro d’affari,
che conquistino nuove quote di mercato e che siano disposte a
investire capitali di rischio. E’ necessario pertanto che
l’attività d’impresa sia dinamica, pronta a
cogliere i momenti favorevoli, votata alla creatività e con un
senso di appartenenza che faccia dire all’imprenditore: “
Ho rischiato, ma i risultati sono buoni, ho dei bei guadagni e ho
contribuito al benessere del paese dando lavoro a tanta gente.”
Purtroppo, non tutti, ma una buona parte dei nostri imprenditori,
anziché essere innovativi, sono conservativi, insomma tirano a
campare, accontentandosi della loro dimensione, perché tanto,
se le cose dovessero mettersi male, ci sono sempre imprenditori
stranieri, soprattutto cinesi, disposti a rilevare le relative
attività. E’ evidente che questo ragionamento non
rappresenta un passo avanti nella costruzione di una coscienza
socio-economica nazionale; quindi, nonostante la continua contrazione
della natalità, c’è ancora, evidente, un surplus
di domanda sull’offerta.
Per
ovviare a questo occorre una visione di largo respiro, è
necessaria una schiera di politici che diano un indirizzo comune al
paese, rappresentando gli interessi di tutti, una soluzione che
richiede tuttavia tempi non brevi per la sua realizzazione, ma che
comunque sarebbe di sicuro risultato. A questa Nazione, di cui sono
parte e che amo, ciò che manca è tanto, ma soprattutto
è una coscienza comune e uno scopo condiviso, allo stato un
sogno che potrebbe presto trasformarsi in una chimera se non si
dovesse avviare, con rapidità, un processo di rifondazione
dello Stato.
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