Amal
(Speranza,
in italiano)
di
Gianluca Ferrari
Amal,
che l’aria fu qualcosa
da
mangiare ma nuvole
avare
grevi di polvere
di
sole, arsure non potevano
bastare…
e
venne il giorno che il respiro
diventò
morso al proprio corpo:
l’etere
porta nella luce
-
bimbo meticoloso perfido
che
spella poco a poco
inerme
insetto, sapendo
d’ingigantire
il male -
tuo
implacabile scheletro vivo.
Amal
morta di fatica e fame
come
gli schiavi sotto
i
colossali vertici di Giza,
dell’enigma
della Vita.
Morta
di fatica e fame
in
braccio all’impotente madre.
Di
te che imperituro
monumento
resta?
Forse
la foto del reporter
d’America:
a stento
contiene
le sporgenze
delle
tue piccole ossa
(riproducono,
qui in Terra,
quale
indifferente costellazione?!
Gli
dei eravamo noi
e
il cielo un’illusione).
Trovi
la forza di dare
basamento
con falangi,
tarsi
all’enorme testa.
Occhi
nero granito
portano
inciso tutto quello
che
più non riesci a dire
(neppure
il pianto,
l’ultimo
miserrimo appetito);
lo
scalpello del Dolore
gli
lascia, al fondo,
sgomento
d’infinito.
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