Il
campo comune
di
massimolegnani
Al
mio paese, poche case un canale e una collina, mi raccontano che un
tempo c’era un campo demaniale, un’estensione enorme
quasi a ridosso dell’abitato, appena oltre il corso d’acqua,
non lontano dalla cappella di S.Rocco. A qualunque ora tu passassi
per il viale, vedevi al di là del canale gente all’opera,
chi con la zappetta chi con l’aratro tirato dal cavallo. Era
un’abitudine soffermarti per un cenno di saluto e qualche
parola a commento del buon lavoro altrui.
Il
grande campo era suddiviso in tanti appezzamenti senza recinzioni che
ciascuno coltivava a suo piacere a ortaggi o fiori o cereali, erba da
foraggio, piccole vigne. Visto dall’alto della collina il campo
sembrava una scacchiera variopinta.
Avevi
diritto a tanta terra quanta riuscivi a lavorarne, fermo però
restando che non era terra tua ma prestito gratuito della comunità.
E il concetto di possesso comune, o meglio il senso di questo
non-possesso, era cementato dalla tradizione dell’Offerta, una
specie di piccola fiera di paese in cui ogni contadino rendeva una
parte dei suoi prodotti agli altri in un mercato senza soldi dov’era
ammesso al massimo il baratto. Ma l’ideale era la resa senza un
immediato tornaconto. E alla fine della fiera il dare e l’avere
tornavano in equilibrio come per magia o forse più
semplicemente perché nessuno usava il bilancino e il braccio
corto. Tutti si sentivano soddisfatti per quegli scambi fatti a
spanne e il dare agli altri era gratificante quanto il ricevere da
loro.
Pare sia stato un
periodo irripetibile, gran fervore, gioia di esserci, sana rivalità
e qualche lite ricomposta facilmente dal sindaco o dal parroco.
Pare addirittura che ci fosse chi di buon mattino prestasse attrezzi
e braccia agli altri, senza esserne richiesto. Sì, pare che
più d’uno si guardasse intorno a cercare l’appezzamento
più bisognoso di cure e si mettesse di buona lena, sotto il
sole o al vento freddo, a fare i lavori più pesanti al posto
di chi non ce la faceva, piantare i pali di sostegno di una minima
vigna, tirare su muretti a secco con le pietre tolte dalla terra,
scavare piccoli canali che facessero arrivare acqua nelle zone più
aride. A volere c’era sempre qualcosa da fare, e la facevano,
perché nessuno avrebbe saputo dire cosa fosse un’utopia,
ma intanto, insieme agli altri, all’utopia davano la forma
della bella concretezza.
Io
sono arrivato che stava finendo l’età dell’oro,
quando gli interessi si erano rivolti altrove e la voglia di possesso
andava prevalendo sul desiderio di un bene in comune. Così
poco alla volta sono sorti orti di proprietà, campi privati e
siepi e recinzioni.
Bei
luoghi, per carità, curati nei dettagli e spesso prosperosi
nella resa, ma io non riesco a non considerarli piccoli monumenti
all’ego di ciascuno.
Intanto
il campo comune è pieno di sterpaglie, uno stato di abbandono
dove abbondavano un tempo le messi e le parole. Ancora si aggira
qualche anziano contadino con una zappa ostinata in spalla. Sembra
cercare qualcosa che non esiste più, ha lo smarrimento di un
cane randagio dopo Nagasaki. Ma negli occhi e nei gesti lenti con cui
strappa erbacce e sterpi c’è ancora un barlume di
speranza, come sapesse, e non lo sa, che Nagasaki è risorta
dalle sue macerie.
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