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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  Il campo comune, di massimolegnani 26/01/2018
 

Il campo comune

di massimolegnani



Al mio paese, poche case un canale e una collina, mi raccontano che un tempo c’era un campo demaniale, un’estensione enorme quasi a ridosso dell’abitato, appena oltre il corso d’acqua, non lontano dalla cappella di S.Rocco. A qualunque ora tu passassi per il viale, vedevi al di là del canale gente all’opera, chi con la zappetta chi con l’aratro tirato dal cavallo. Era un’abitudine soffermarti per un cenno di saluto e qualche parola a commento del buon lavoro altrui. 
Il grande campo era suddiviso in tanti appezzamenti senza recinzioni che ciascuno coltivava a suo piacere a ortaggi o fiori o cereali, erba da foraggio, piccole vigne. Visto dall’alto della collina il campo sembrava una scacchiera variopinta. 
Avevi diritto a tanta terra quanta riuscivi a lavorarne, fermo però restando che non era terra tua ma prestito gratuito della comunità. E il concetto di possesso comune, o meglio il senso di questo non-possesso, era cementato dalla tradizione dell’Offerta, una specie di piccola fiera di paese in cui ogni contadino rendeva una parte dei suoi prodotti agli altri in un mercato senza soldi dov’era ammesso al massimo il baratto. Ma l’ideale era la resa senza un immediato tornaconto. E alla fine della fiera il dare e l’avere tornavano in equilibrio come per magia o forse più semplicemente perché nessuno usava il bilancino e il braccio corto. Tutti si sentivano soddisfatti per quegli scambi fatti a spanne e il dare agli altri era gratificante quanto il ricevere da loro.
Pare sia stato un periodo irripetibile, gran fervore, gioia di esserci, sana rivalità e qualche lite ricomposta facilmente dal sindaco o dal parroco.  Pare addirittura che ci fosse chi di buon mattino prestasse attrezzi e braccia agli altri, senza esserne richiesto. Sì, pare che più d’uno si guardasse intorno a cercare l’appezzamento più bisognoso di cure e si mettesse di buona lena, sotto il sole o al vento freddo, a fare i lavori più pesanti al posto di chi non ce la faceva, piantare i pali di sostegno di una minima vigna, tirare su muretti a secco con le pietre tolte dalla terra, scavare piccoli canali che facessero arrivare acqua nelle zone più aride. A volere c’era sempre qualcosa da fare, e la facevano, perché nessuno avrebbe saputo dire cosa fosse un’utopia, ma intanto, insieme agli altri, all’utopia davano la forma della bella concretezza.
Io sono arrivato che stava finendo l’età dell’oro, quando gli interessi si erano rivolti altrove e la voglia di possesso andava prevalendo sul desiderio di un bene in comune. Così poco alla volta sono sorti orti di proprietà, campi privati e siepi e recinzioni. 
Bei luoghi, per carità, curati nei dettagli e spesso prosperosi nella resa, ma io non riesco a non considerarli piccoli monumenti all’ego di ciascuno. 
Intanto il campo comune è pieno di sterpaglie, uno stato di abbandono dove abbondavano un tempo le messi e le parole. Ancora si aggira qualche anziano contadino con una zappa ostinata in spalla. Sembra cercare qualcosa che non esiste più, ha lo smarrimento di un cane randagio dopo Nagasaki. Ma negli occhi e nei gesti lenti con cui strappa erbacce e sterpi c’è ancora un barlume di speranza, come sapesse, e non lo sa, che Nagasaki è risorta dalle sue macerie. 

 
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