I
luoghi dell’anima: la baita
di
massimolegnani
Sono
uomo di città, ma ho una baita malandata su in montagna, poco
sopra Noasca, dove mi rifugio tutte le volte che posso. Si trova in
una conca in parte occupata da un piccolo lago e nascosta al mondo da
un fitto bosco di larici. Ci si arriva solo a piedi, un’ora
buona di cammino se siamo nella bella stagione, anche il doppio se ha
nevicato. È una fatica comunque ripagata dalla bellezza del
luogo e dalla posizione solitaria della vecchia costruzione che da
uno sperone roccioso domina lo specchio d’acqua con attorno una
corona alberi maestosi. Per goderne appieno, però, devi
saperti accontentare di un posto senza agi, un tavolo, due panche, un
camino, un letto, niente elettricità, niente riscaldamento,
niente acqua corrente in casa. Ma l’acqua corre lì
vicino, un ruscelletto che di giorno ti disseta e di notte ti
accompagna il sonno con un gorgoglio sommesso, e un poco di calore te
lo regalano le braci del camino che vanno avanti tutta notte.
Le
prime ore di soggiorno sono un impegno per tutte le incombenze
necessarie a rendere vivibile la baita, l’approvvigionamento
d’acqua, le scorte di legna, il rabbocco delle lampade ad olio,
l’accensione del focolare, la riparazione di qualche danno del
maltempo, insomma, arriva pomeriggio che ancora devo pranzare. Ma qui
il tempo ha una valenza diversa che in città, è
scandito dai fenomeni naturali che devi rispettare, la luce
soprattutto che devi sfruttare fin che c’è per quei
lavori all’aperto che non potresti al buio. Così, un’ora
dopo l’altra, finisco col far coincidere il pranzo alla cena e
mangio felicemente affamato ogni cosa che sono riuscito a cucinarmi
sulle pietre o nel camino.
Verso
sera, quando il sole è già dietro le cime ma l’aria
è ancora luminosa, mi riposo appoggiandomi coi gomiti al
parapetto in legno del balcone. Fisso il lago e mi riempio gli occhi
di tante, piccole, bellezze, la sagoma dei pini in controluce che
ondeggiano alla brezza, un cerbiatto impavido che s’abbevera
alla riva. Poi mi porto due dita in bocca e fischio forte, come un
pecoraro che richiami i suoi animali. Fischio e aspetto. Prima arriva
l’eco del fischio, sempre che non siano marmotte in vena di
scambiare due chiacchiere con me, quindi tutto torna silenzio. E nel
silenzio lo vedo, eccolo lassù nel cielo, si è lanciato
dalla cima di uno di quei pini su a nord e plana lento verso il lago.
Ha un volo elegante, ad ali spalancate e ferme, non un battito, non
uno scarto dalla traiettoria rettilinea. Ho imparato a riconoscerlo
per i colori vivaci che lo fanno assomigliare a una ghiandaia, e per
il volo fermo che quasi sembra un piccolo rapace. Arriva, sorvola il
lago a pelo d’acqua, a volte afferra al volo un pesciolino
incauto, più spesso si esibisce in piccoli volteggi e
acrobazie, proprio quando ce l’ho davanti. E sempre emette un
grido modulato, quasi gioioso, che a me sembra mi saluti, prima di
riprendere la via del nido. Lo guardo scomparire a poco a poco nella
penombra lucente della sera. Forse è un passinbruno.
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