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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  I luoghi dell'anima: la baita, di massimolegnani 29/03/2018
 

I luoghi dell’anima: la baita

di massimolegnani



Sono uomo di città, ma ho una baita malandata su in montagna, poco sopra Noasca, dove mi rifugio tutte le volte che posso. Si trova in una conca in parte occupata da un piccolo lago e nascosta al mondo da un fitto bosco di larici. Ci si arriva solo a piedi, un’ora buona di cammino se siamo nella bella stagione, anche il doppio se ha nevicato. È una fatica comunque ripagata dalla bellezza del luogo e dalla posizione solitaria della vecchia costruzione che da uno sperone roccioso domina lo specchio d’acqua con attorno una corona alberi maestosi. Per goderne appieno, però, devi saperti accontentare di un posto senza agi, un tavolo, due panche, un camino, un letto, niente elettricità, niente riscaldamento, niente acqua corrente in casa. Ma l’acqua corre lì vicino, un ruscelletto che di giorno ti disseta e di notte ti accompagna il sonno con un gorgoglio sommesso, e un poco di calore te lo regalano le braci del camino che vanno avanti tutta notte.

Le prime ore di soggiorno sono un impegno per tutte le incombenze necessarie a rendere vivibile la baita, l’approvvigionamento d’acqua, le scorte di legna, il rabbocco delle lampade ad olio, l’accensione del focolare, la riparazione di qualche danno del maltempo, insomma, arriva pomeriggio che ancora devo pranzare. Ma qui il tempo ha una valenza diversa che in città, è scandito dai fenomeni naturali che devi rispettare, la luce soprattutto che devi sfruttare fin che c’è per quei lavori all’aperto che non potresti al buio. Così, un’ora dopo l’altra, finisco col far coincidere il pranzo alla cena e mangio felicemente affamato ogni cosa che sono riuscito a cucinarmi sulle pietre o nel camino.

Verso sera, quando il sole è già dietro le cime ma l’aria è ancora luminosa, mi riposo appoggiandomi coi gomiti al parapetto in legno del balcone. Fisso il lago e mi riempio gli occhi di tante, piccole, bellezze, la sagoma dei pini in controluce che ondeggiano alla brezza, un cerbiatto impavido che s’abbevera alla riva. Poi mi porto due dita in bocca e fischio forte, come un pecoraro che richiami i suoi animali. Fischio e aspetto. Prima arriva l’eco del fischio, sempre che non siano marmotte in vena di scambiare due chiacchiere con me, quindi tutto torna silenzio. E nel silenzio lo vedo, eccolo lassù nel cielo, si è lanciato dalla cima di uno di quei pini su a nord e plana lento verso il lago. Ha un volo elegante, ad ali spalancate e ferme, non un battito, non uno scarto dalla traiettoria rettilinea. Ho imparato a riconoscerlo per i colori vivaci che lo fanno assomigliare a una ghiandaia, e per il volo fermo che quasi sembra un piccolo rapace. Arriva, sorvola il lago a pelo d’acqua, a volte afferra al volo un pesciolino incauto, più spesso si esibisce in piccoli volteggi e acrobazie, proprio quando ce l’ho davanti. E sempre emette un grido modulato, quasi gioioso, che a me sembra mi saluti, prima di riprendere la via del nido. Lo guardo scomparire a poco a poco nella penombra lucente della sera. Forse è un passinbruno.


 
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