Fate
una cosa intelligente
di
massimolegnani
Di
Omero Malaguti nel quartiere dicevano che era fiacco.
Avessero
avuto maggiore proprietà di linguaggio avrebbero detto che era
amorfo, perché probabilmente è questo che intendevano,
la sua era mancanza di forma e di costrutto. Naturalmente aveva una
sua fisionomia e qualcosa negli anni aveva costruito, ma dava l’idea
di attraversare la vita come fosse liquido, acqua che prende la forma
della brocca o del bicchiere, acqua che ci guardi attraverso in
trasparenza. Nei discorsi in piazza, negli incontri occasionali tra
le bancarelle del mercato, nelle brevi code dal panettiere o dal
fruttivendolo, lui assumeva un’equidistanza neutra dalle parole
altrui, e se proprio doveva schierarsi sceglieva la posizione
prevalente, dove più facilmente avrebbe potuto nascondere il
proprio pensiero tra le affermazioni roboanti di chi sempre sa come
va davvero il mondo.
Ma
il più delle volte evitava proprio di mettersi nella
condizione di doversi esprimere, se poteva cambiava marciapiede
quando vedeva in lontananza un conoscente, infilava le scale per
sottrarsi ai dialoghi tremendi da ascensore, bofonchiava scusa ho
fretta se qualche amico lo fermava per strada. Insomma, la sua
massima aspirazione era di passare inosservato. E non gli importava
nulla di essere giudicato un debole da quel minimo universo che non
superava i confini del quartiere. Pusillanime, l’aveva
bollato una volta per tutte il professor Armidi che insegnava latino
al locale liceo e gli altri avevano assentito, ripromettendosi di
verificare quanto prima il significato di quella parola ignota che a
istinto suonava bene come insulto colto. E quella parola si appiccicò
addosso a Omero come una seconda pelle.
C’era
però un aspetto di quest’uomo che nessuno conosceva: il
disprezzo che nutriva, equamente ripartito e segretamente coltivato,
per ogni suo concittadino, dal parroco dell’Immacolata
all’edicolante di via Einaudi, dal Cottini, cavaliere del
lavoro all’ultimo immigrato privo di lavoro. Omero li vedeva
tutti accomunati dalla smania di vivere e non perdonava loro
quell’affannoso quanto inutile rincorrere la felicità.
Erano irrecuperabili, ma d’altronde nessuna salvezza era
possibile a questo mondo, né per sé né per alcun
altro. Lui almeno era consapevole della grottesca assurdità
della vita: il vero peccato originale era il fatto stesso di essere
vivi. Omero era un disilluso, privo di idoli e ideali, l’unica
idea che lo ossessionava era di spegnere per sempre il mondo, o
almeno il suo quartiere. Ma non aveva locomotive da lanciare contro
il futuro né bombe anarchiche a ripianare le ingiustizie.
L’unica sua arma era una bomboletta di vernice nera.
Così
di notte, dai muri delle case e delle chiese, lanciava il suo appello
disperato, sempre identico: fate una cosa intelligente, morite. Io
vi seguirò.
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