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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  Fate una cosa intelligente, di massimolegnani 29/07/2018
 

Fate una cosa intelligente

di massimolegnani



Di Omero Malaguti nel quartiere dicevano che era fiacco.

Avessero avuto maggiore proprietà di linguaggio avrebbero detto che era amorfo, perché probabilmente è questo che intendevano, la sua era mancanza di forma e di costrutto. Naturalmente aveva una sua fisionomia e qualcosa negli anni aveva costruito, ma dava l’idea di attraversare la vita come fosse liquido, acqua che prende la forma della brocca o del bicchiere, acqua che ci guardi attraverso in trasparenza. Nei discorsi in piazza, negli incontri occasionali tra le bancarelle del mercato, nelle brevi code dal panettiere o dal fruttivendolo, lui assumeva un’equidistanza neutra dalle parole altrui, e se proprio doveva schierarsi sceglieva la posizione prevalente, dove più facilmente avrebbe potuto nascondere il proprio pensiero tra le affermazioni roboanti di chi sempre sa come va davvero il mondo.

Ma il più delle volte evitava proprio di mettersi nella condizione di doversi esprimere, se poteva cambiava marciapiede quando vedeva in lontananza un conoscente, infilava le scale per sottrarsi ai dialoghi tremendi da ascensore, bofonchiava scusa ho fretta se qualche amico lo fermava per strada. Insomma, la sua massima aspirazione era di passare inosservato. E non gli importava nulla di essere giudicato un debole da quel minimo universo che non superava i confini del quartiere. Pusillanime, l’aveva bollato una volta per tutte il professor Armidi che insegnava latino al locale liceo e gli altri avevano assentito, ripromettendosi di verificare quanto prima il significato di quella parola ignota che a istinto suonava bene come insulto colto. E quella parola si appiccicò addosso a Omero come una seconda pelle.

C’era però un aspetto di quest’uomo che nessuno conosceva: il disprezzo che nutriva, equamente ripartito e segretamente coltivato, per ogni suo concittadino, dal parroco dell’Immacolata all’edicolante di via Einaudi, dal Cottini, cavaliere del lavoro all’ultimo immigrato privo di lavoro. Omero li vedeva tutti accomunati dalla smania di vivere e non perdonava loro quell’affannoso quanto inutile rincorrere la felicità. Erano irrecuperabili, ma d’altronde nessuna salvezza era possibile a questo mondo, né per sé né per alcun altro. Lui almeno era consapevole della grottesca assurdità della vita: il vero peccato originale era il fatto stesso di essere vivi. Omero era un disilluso, privo di idoli e ideali, l’unica idea che lo ossessionava era di spegnere per sempre il mondo, o almeno il suo quartiere. Ma non aveva locomotive da lanciare contro il futuro né bombe anarchiche a ripianare le ingiustizie. L’unica sua arma era una bomboletta di vernice nera.

Così di notte, dai muri delle case e delle chiese, lanciava il suo appello disperato, sempre identico: fate una cosa intelligente, morite. Io vi seguirò.

 
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