Ci
sono storie
di
massimolegnani
Ci
sono storie che conservi a lungo in mente, ti vivono dentro, crescono
silenziosamente e ti accompagnano nel quotidiano come simpatici tarli
che sei abituato a sentir lavorare nei vecchi mobili di casa.
Insomma,
ti sembrano reali certe storie ma non è detto che alla fine le
realizzi.
Per
fare un buon racconto, mi hanno detto, ci vogliono tre ingredienti
essenziali, il vero, il sogno e la speranza, amalgamati tra di
loro e impastati di invenzioni.
In
una storia ci devi essere tu, ben camuffato naturalmente ma con
qualcosa di riconoscibile, un vezzo, un sopracciglio, una parola, e
poi ci deve essere qualcosa che non sei stato né sarai mai, ma
che ti sarebbe piaciuto essere. E tutt’attorno c’è
da mettere la bambagia, o il filo spinato, della fantasia a seconda
dell’atmosfera in cui vuoi immergere le parole.
Adoro
il passaggio di stato, quell’andare dalla testa ai
tasti. È il momento culminante, assai rischioso, può
succedere che nel travaso tutto evapori e la storia allora si
disperde all’aria come mai esistita. È un timore che mi
attanaglia sempre, più di seicento brani sul blog, eppure temo
sempre che sia l’ultimo, che non mi riesca più di dare
forma e maschera alle idee che di continuo s’accendono e si
spengono nella mia testa.
Oreste,
per esempio, è lì che aspetta da tempo, scalpita
impaziente facendo ruggire il motore, ma io non mi decido, temo il
travaso. Di lui ormai so tutto, il carattere e il mestiere, il luogo
e il tempo e anche la giornata particolare in cui farlo vivere, forse
morire.
Oreste
ombroso mi regalerebbe un lavoro alternativo al mio, collaudatore di
modelli sportivi, e un’epoca, tra la fine degli anni cinquanta
e i primi sessanta in cui io ero solo un bimbetto che alla finestra
guardava passare le automobili. E mi regalerebbe anche la mitica
Giulietta Alfa Romeo, all’avanguardia per quei tempi, su cui
avrei voluto viaggiare da bambino. Ma papà comprava solo
tranquille auto da famiglia, la 1400 B, la Taunus, la Consul.
Addirittura
di Oreste so pure dove andava a collaudare i suoi prototipi.
Anzi,
tutto ha preso le mosse nel giorno in cui pedalando tra risaie e
aironi sono capitato a Balocco, prima all’Osteria poi alla
pista privata della casa automobilistica milanese.
Fermo
davanti ai cancelli ho letto sull’asfalto la sua storia.
Coscienzioso
sul lavoro, l’Oreste. Scrupoloso e critico, mai gli andava
bene così com’era il modello che gli davano da provare,
sempre a trovare difetti (il posteriore saltella, i freni non sono
proporzionati alla potenza) che, a correggerli, per l’azienda
significavano costi aggiuntivi che non sempre voleva sobbarcarsi.
E
qui mi affiora a tradimento il timore del travaso.
Troppo
reale Oreste, pure mai esistito, troppo circostanziate le vicende
immaginate, che la Giulietta era davvero una macchina nervosa, mi
ricordo certi suoi capottamenti mortali, troppo bella la Giulietta,
che era passione per la guida e rischio di strafare. In fondo quello
che mi frena è il timore che l’AlfaRomeo, che in
quel progetto ardito aveva profuso grandi capitali, venga a sapere di
Oreste e a distanza di decenni non gradisca le sue critiche e le mie.
Forse
dovrei stare sul vago, fargli collaudare una macchina qualunque su
strade anonime in un tempo senza tempo. Ma, accidenti, Oreste, come
idea, è inscindibile dalla Giulietta, come un amore non lo
puoi narrare spezzandolo in due, racconti di uno ma non dell’altra,
al posto dell’altra ci metti una pupazza qualunque.
No,
non posso.
O
forse potrei, Giulietta che diventa la sua donna?
Sono
indeciso, mi sembra una finzione più che una soluzione. E
mentre mi scervello per rendere credibile la storia, Oreste già
evapora nell’aria.
Il
travaso è andato a male.
Sfocano
i contorni, si disperde il mio collaudatore e mentre lui svanisce al
sole del reale come la neve in questi giorni, mi sembra di sentirlo
mormorare Giulia, Giulietta, amore mio. Sarà la
macchina o la donna?
È
troppo tardi per saperlo, ormai Oreste non c’è più.
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