Una
bizzarra posta in gioco
di
Grazia Giordani
Quell’avvocato
di cui già sapete è stato una vera miniera di
ispirazioni.
«Dai
mie ricordi hanno tratto a piene mai Bevilacqua e la Maraini, oltre a
tanti altri, quindi se scriverà qualcosa anche lei, poco male
(sempre che questa sia in grado di farlo, mah ho i miei dubbi); vista
la considerazione in cui la tengono gli amici, penso che lei sia una,
una…»
«…
una cornacchia?»
«
Signora, cosa dice, non mi permetterei mai (che mi legga nel
pensiero, questa?)»
«Lo
so che quanto le racconto le sembra frutto di fantasia, ma le giuro
che è tutto vero. Lei vive in provincia (chissà che
posto sarà mai quel Polesine) e quindi, trascorrendo i suoi
giorni in un luogo tanto sereno e tranquillo, fatica ad immaginare le
storture e le aberrazioni di certa gente di città.
«Dunque,
una bella mattina (a quell’epoca la Patrizia lavorava con me e
la Rita non aveva ancora scoperto nulla) mi capita in studio una
signora sulla quarantina. Un tipo elegante, sofisticata, vestita con
classe, profumo giusto, accessori intonati. Sono un uomo che guarda a
tutto; le donne le annuso quasi, le sento a naso, insomma».
«Come
fossero tartufi?»
«Se
mi interrompe sempre, perdo il filo e non riesco più a
raccontarle. Dove eravamo rimasti?»
«Alla
signora “annusata”».
Rassegnato
alle mie interruzioni, l’avvocato, guardando fuori dal
finestrino con occhio opacizzato dalle visioni di vita lontana,
prosegue a raccontare la bizzarra vicenda di questa cliente, sposata
a un professionista, malato terminale di un’orribile malattia.
La moglie vorrebbe liberarsene, in quanto innamorata cotta di un
giovane «squattrinato, ma tanto sensuale ed affettuoso»,
con cui spererebbe di rifarsi una vita e soprattutto vendicarsi del
fatto che – quando il marito era nel pieno delle forze e della
salute -, accanito giocatore di poker, la usava come posta di gioco.
Se perdeva la partita, la costringeva ad amplessi forzati con il
vincitore che acconsentiva a questo perverso accordo.
«Pochi
giorni dopo, mi capita nello studio un uomo emaciato, col respiro
corto. Lo faccio sedere, premurosamente, e – prima ancora che
mi esponga il caso -, capisco subito che è il pokerista dalle
strampalate abitudini».
«Sono
disposto a qualsiasi compromesso – mi sussurra -, ma non voglio
morire “separato”. Mi aiuti a convincere mia moglie a un
ultimo poker, prima della mia fine».
«A
quelle parole, mi sembrava di vivere dentro un romanzo scritto da una
penna alienata. Avevo proprio la faccia che fa lei, Signora, la sua
stessa espressione divisa tra meraviglia e disgusto -, e sì
che ne ho viste di stramberie ed aberrazioni nella mia vita…»
Un
camion che ci superava in corsa mi fece perdere le ultime parole del
narratore.
«Come?»
«Dicevo
che – impietosito – mi rivolsi alla moglie che,
freddamente e contro ogni mia aspettativa, acconsentì sotto
condizione che assistessi anch’io alla partita. «Veramente
avrei preferito presenziare al “dopo partita”, perché
non amo il gioco. Ma non seppi sottrarmi.
«La
sera seguente, fui accolto in una lussuosa mansarda in una
centralissima via della mia città. Un ascensore silenzioso,
che sembrava volare sulla seta, mi condusse direttamente in casa da
questa strana gente e quindi in un boudoir pieno di cineserie e
abatjour ornate da frange che proiettavano irreali cerchi di luce sul
tavolo verde.
La
partita fu brevissima.
Sembrava
che il marito volutamente desiderasse di perdere.
La
moglie si allontanò col vincitore sottobraccio.
Con
l’animo di chi ha vissuto un incubo, mi diressi
all’ascensore.
Nel
chiudere la porta, udii il fragore di uno sparo.
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