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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  Sortilegio, di Grazia Giordani 03/05/2020
 
Sortilegio

di Grazia Giordani





Forse l’avevo guardata senza vederla, un po’ come succede con certe immagini subliminali che ci restano nella retina senza che ce ne rendiamo conto, in piena consapevolezza. Naturalmente questo mi è apparso chiaro molto tempo appresso. Nella sala d’onore di una severa biblioteca di provincia ero seduto a presentare il mio saggio sulla vita di uno scrittore grande che considero il mio maestro; l’atmosfera era un po’ ingessata, con un pubblico statico. In mezzo a quella folla (che proprio folla non era, a dire il vero) avrei dovuto notarla, restare colpito dal suo sguardo lievemente ammiccante («è tutta colpa delle strabismo, mi ha detto lei in seguito») e dalla sua figuretta sinuosa chiusa in un tailleur severo nel taglio e trasgressivo negli accessori. Anche l’abito può essere la proiezione di certe nostre doppiezze
«Ho scritto questo libro per rintracciare i punti eminenti della vita di un uomo tra i più colti e raffinati di questo secolo...» - mi ha sussurrato al telefono, nella tarda mattinata di sei mesi dopo, una voce dal timbro “interno” - quasi la portassi da tempo dentro l’orecchio, anch’essa in un certo senso subliminale come l’immagine della signora in tailleur che avevo guardato, credendo di non vederla.
«Scusi, con chi parlo? Replicai meravigliato di sentire citata una frase posta in prefazione al mio saggio».
«Pensa a R* (risatina sommessa), al 7 di giugno...».
«Eri fra il pubblico di quel pomeriggio?».
«Ahité!, c’ero e ho telefonato per ringraziarti a proposito del biglietto che mi hai scritto commentando il mio ultimo romanzo».
«Devo essere un uomo distratto dalle troppe cose che vado facendo e dalla mia naturale disposizione ad aiutare tutti, così fatico a ricordare qualcuno in particolare. Non ricordo il mio biglietto, però non ho dimenticato la tua Ginevra e soprattutto il fuoco che portava dentro. Le somigli?».
Altre chiacchiere vaghe, promesse di rivederci, accordi per risentirci e poi tutto - come molte delle mie troppe cose - cadde nel nulla.
Ormai eravamo nel pieno dell’inverno. Era un pomeriggio uggioso di quelli in cui la pioggia assomiglia a fuliggine e Milano si ammanta di un sudario d’ardesia, senza spiragli di luce. Il telefono suonava incessante, portando messaggi noiosi di cui me ne importava meno che niente.
«...Per secoli gli artigiani corallari trapanesi hanno realizzato gioielli destinati alle collezioni più prestigiose del mondo...».
«G*! Esclamai con gioia, che piacere sentire la tua voce gentile in questo pomeriggio di grande rottura...».
Le nostre telefonate presero un ritmo non regolare, ma piacevole, ci sentivamo in sintonia sotto molti aspetti: lei aveva un’ava mia conterranea, un padre artista - e io stesso lo sono - scriveva, anche se da postazioni più modeste della mia.
«Come sei vestita?- le chiesi d’istinto una mattina, dopo aver lungamente conversato di Dostoevskij, Malher e della mia e sua infanzia, saltando di palo in frasca da temi alati ad argomenti familiari, in un clima colloquiale, che andava ogni giorno più scaldandosi».
«Indosso una vestaglia di seta mauve, con body in tinta - rispose lei, con una lieve incrinatura nella voce, un respiro emesso a metà, trattenuto dentro, che mi accese la voglia di conoscere i suoi “strati” sottostanti».
«La tua voce mi accarezza - mi diceva lei, con un’ansia sussurrata - ha il fruscio della seta e il ruvido di una raucedine che illanguidisce...».
Ormai ci “vedevamo” per telefono con una chiarezza magica che rinfocolava il desiderio, ingigantendolo, traducendo la curiosità in frenesia, infiammando la voglia ogni giorno di più.
C’era qualcosa di magico in questo nostro rendez-vous via cavo, che non aveva nulla di volgare, poiché fioriva naturale dalle nostre labbra (che spesso si congiungevano avide in baci “parlati”, stillanti umore come se fossero veri), ci univa una misteriosa cabala, un clima di solleticante sortilegio...
Dormivo pesantemente, quella mattina. Ormai era primavera inoltrata e un sole sfacciato mi ferì gli occhi quando aprii le imposte della finestra. Il campanello suonò due trilli queruli, come se fosse sfiorato da una mano incerta. Spalancai la porta e sulla soglia apparve lei: non ebbi dubbi ad indovinare che era G*.



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