Sortilegio
di
Grazia Giordani
Forse
l’avevo guardata senza vederla, un po’ come succede con
certe immagini subliminali che ci restano nella retina senza che ce
ne rendiamo conto, in piena consapevolezza. Naturalmente questo mi è
apparso chiaro molto tempo appresso. Nella sala d’onore di una
severa biblioteca di provincia ero seduto a presentare il mio saggio
sulla vita di uno scrittore grande che considero il mio maestro;
l’atmosfera era un po’ ingessata, con un pubblico
statico. In mezzo a quella folla (che proprio folla non era, a dire
il vero) avrei dovuto notarla, restare colpito dal suo sguardo
lievemente ammiccante («è tutta colpa delle strabismo,
mi ha detto lei in seguito») e dalla sua figuretta sinuosa
chiusa in un tailleur severo nel taglio e trasgressivo negli
accessori. Anche l’abito può essere la proiezione di
certe nostre doppiezze
«Ho scritto questo libro per
rintracciare i punti eminenti della vita di un uomo tra i più
colti e raffinati di questo secolo...» - mi ha sussurrato al
telefono, nella tarda mattinata di sei mesi dopo, una voce dal timbro
“interno” - quasi la portassi da tempo dentro l’orecchio,
anch’essa in un certo senso subliminale come l’immagine
della signora in tailleur che avevo guardato, credendo di non
vederla.
«Scusi, con chi parlo? Replicai meravigliato di
sentire citata una frase posta in prefazione al mio saggio».
«Pensa
a R* (risatina sommessa), al 7 di giugno...».
«Eri
fra il pubblico di quel pomeriggio?».
«Ahité!,
c’ero e ho telefonato per ringraziarti a proposito del
biglietto che mi hai scritto commentando il mio ultimo
romanzo».
«Devo essere un uomo distratto dalle
troppe cose che vado facendo e dalla mia naturale disposizione ad
aiutare tutti, così fatico a ricordare qualcuno in
particolare. Non ricordo il mio biglietto, però non ho
dimenticato la tua Ginevra e soprattutto il fuoco che portava dentro.
Le somigli?».
Altre chiacchiere vaghe, promesse di
rivederci, accordi per risentirci e poi tutto - come molte delle mie
troppe cose - cadde nel nulla.
Ormai eravamo nel pieno
dell’inverno. Era un pomeriggio uggioso di quelli in cui la
pioggia assomiglia a fuliggine e Milano si ammanta di un sudario
d’ardesia, senza spiragli di luce. Il telefono suonava
incessante, portando messaggi noiosi di cui me ne importava meno che
niente.
«...Per secoli gli artigiani corallari trapanesi
hanno realizzato gioielli destinati alle collezioni più
prestigiose del mondo...».
«G*! Esclamai con gioia,
che piacere sentire la tua voce gentile in questo pomeriggio di
grande rottura...».
Le nostre telefonate presero un ritmo
non regolare, ma piacevole, ci sentivamo in sintonia sotto molti
aspetti: lei aveva un’ava mia conterranea, un padre artista - e
io stesso lo sono - scriveva, anche se da postazioni più
modeste della mia.
«Come sei vestita?- le chiesi d’istinto
una mattina, dopo aver lungamente conversato di Dostoevskij, Malher e
della mia e sua infanzia, saltando di palo in frasca da temi alati ad
argomenti familiari, in un clima colloquiale, che andava ogni giorno
più scaldandosi».
«Indosso una vestaglia di
seta mauve, con body in tinta - rispose lei, con una lieve
incrinatura nella voce, un respiro emesso a metà, trattenuto
dentro, che mi accese la voglia di conoscere i suoi “strati”
sottostanti».
«La tua voce mi accarezza - mi diceva
lei, con un’ansia sussurrata - ha il fruscio della seta e il
ruvido di una raucedine che illanguidisce...».
Ormai ci
“vedevamo” per telefono con una chiarezza magica che
rinfocolava il desiderio, ingigantendolo, traducendo la curiosità
in frenesia, infiammando la voglia ogni giorno di più.
C’era
qualcosa di magico in questo nostro rendez-vous via cavo, che non
aveva nulla di volgare, poiché fioriva naturale dalle nostre
labbra (che spesso si congiungevano avide in baci “parlati”,
stillanti umore come se fossero veri), ci univa una misteriosa
cabala, un clima di solleticante sortilegio...
Dormivo
pesantemente, quella mattina. Ormai era primavera inoltrata e un sole
sfacciato mi ferì gli occhi quando aprii le imposte della
finestra. Il campanello suonò due trilli queruli, come se
fosse sfiorato da una mano incerta. Spalancai la porta e sulla soglia
apparve lei: non ebbi dubbi ad indovinare che era G*.
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