La
poltroncina
di
massimolegnani
Lei
aveva questo nome strano, Galizia, impostole dal padre a ricordo del
“camino” fino all’estrema regione spagnola
che aveva a lungo sognato di compiere e mai aveva effettuato. Questo,
cioè il fatto di essere riferimento a qualcosa di non
realizzato, aveva probabilmente inciso sul suo carattere, Galizia
infatti era cresciuta tra timori, incertezze e qualche passo falso, e
ancora adesso, nonostante possedesse indubbie qualità morali e
fisiche, sentiva il bisogno di continue rassicurazioni. La dicevano
scontrosa e chiusa, ma non sapevano che lei era un fiore in ombra che
solo al sole apre i propri petali.
Lui
fu il sole, per quel giorno almeno, e per circostanze fortuite che di
certo superavano i suoi meriti reali. Si era ritrovato tra il
pubblico sparuto che assisteva in piazza Santo Stefano alla sua
esecuzione di alcune partiture di Bach, in margine al festival
dedicato al grande tedesco che si teneva in molti punti della città.
Galizia
stava china sul proprio violoncello per estraniarsi dai rumori della
piazza e per apparecchiare con diligenza il brano, una nota dopo
l’altra come posate d’argento e bicchieri di cristallo su
una tavola imbandita a festa.
Ogni
volta che sollevava lo sguardo incontrava i suoi occhi attenti. Lei,
allieva del locale conservatorio, fino a quel momento aveva suonato
faticosamente, più con la tecnica che con il cuore, disturbata
dall’andirivieni distratto della gente. Si sentiva ferita dallo
scarso interesse del pubblico, poco amata nella sua fragilità.
Ma ora quegli occhi la stavano “ascoltando”, seguivano
con commozione le note che uscivano dallo strumento, in qualche modo
la incoraggiavano a suonare meglio, con più passione. Erano
suggerimenti muti che lei percepiva come parole calde dette
sottovoce. L’uomo a un certo punto si era accovacciato a un
metro da lei, in un equilibrio precario che riuscì a mantenere
per oltre un’ora.
Al
termine di ogni brano egli applaudiva in modo contenuto, quasi
compassato, accompagnando però il gesto delle mani con un
sorriso compiaciuto che poteva sembrare paterno e che in realtà
racchiudeva emozioni più sottili, vagamente ambigue.
Con
una certa frequenza cadevano nella custodia aperta dello strumento
monete tintinnanti, mai quelle dell’uomo che pure era diventato
per la ragazza l’ascoltatore più prezioso. Galizia non
ne fu dispiaciuta, anzi ebbe l’impressione che il suo mancato
obolo lo ponesse in una posizione privilegiata rispetto al resto del
pubblico. Era come se lui le sussurrasse che la sua musica non la si
poteva comprare col vile denaro.
Quando
la giovane donna concluse la propria esecuzione, l’uomo le si
avvicinò per complimentarsi, una bravura sorprendente,
piacevolmente acerba, le disse. E con educata sfrontatezza la
invitò a pranzo, un piccolo gesto, aggiunse, di
riconoscenza per quanto di sublime ho appena ascoltato.
Era
tale la sintonia che si era instaurata silenziosamente tra loro che a
Galizia parve del tutto comprensibile la sua richiesta e con
altrettanta naturalezza acconsentì con un semplice sorriso
alla proposta. Volle dare un nome a quegli occhi e glielo chiese.
Corrado, disse lui mentre con disinvoltura si metteva a
tracolla l’ingombrante strumento.
S’incamminarono
per le vie del centro, ma non andarono subito a pranzo, preferirono
vagare per la città che lui non conosceva e che lei sembrava
aver dimenticata nonostante ci vivesse, tanto era frastornata dagli
ultimi avvenimenti. Mentre parlavano con leggerezza e serietà
degli argomenti più disparati riscontrando curiose divergenze
e insperati punti di contatto, le une e gli altri accettati con pari
divertimento, Galizia si rese conto che il sole stava raggiungendo i
suoi petali.
Quando
alla fine entrarono in un ristorante, scelto unicamente per il nome
accattivante, libri & cibi, i due avevano già un
affiatamento che altri impiegano mesi a raggiungere.
Furono
fatti accomodare in una saletta interna dove regnava una penombra
confortevole. Pochi tavoli, alcuni vecchi specchi alle pareti che
rimandavano la luce morbida di abatjour sistemati in punti
strategici, libri sparsi ovunque, ogni cosa contribuiva a diffondere
un’atmosfera tranquilla.
Mentre
Galizia studiava la lista dei piatti Corrado si guardò
intorno, incuriosito dalla particolarità del luogo e
palesemente attratto dalle donne più o meno affascinanti che
attraversavano la saletta. Lei se ne accorse e chiuse di scatto il
menù:
Lei
con il suo sguardo competente ha guidato la mia musica come fossi
stata una sua allieva. Mi piacerebbe che continuasse a posare gli
occhi su di me con la medesima intensità, anche se non sto più
suonando.
Era
al contempo un rimprovero e una richiesta, candida, disarmante.
L’uomo
le sorrise ma non si scusò:
Tu
sei perfetta in questa cornice, emani ancora la sensualità
della musica.
See,
perfetta! Intanto lei guarda ogni donna che passa.
Per
quanto le sue parole fossero stizzite, lei non riusciva a dargli del
tu. Troppo “maestro”, lui.
Corrado
rise e fece un gesto con la mano come a dire che le altre non avevano
alcuna importanza, ma Galizia insistette:
Tra
poche ore lei tornerà a essere uno sconosciuto…
Non
completò la frase, lasciando che lui intuisse il non
detto.
Sembrava
l’inizio di una schermaglia che sarebbe potuta sfociare in un
odioso battibecco ma l’uomo si mostrò remissivo:
Hai
ragione, sto perdendo minuti preziosi in cose futili mentre tu meriti
tutto il mio interesse. In realtà non chiedo altro che
continuare a guardarti.
L’uomo
fissò la musicista con una dolce prepotenza, i suoi occhi
riuscivano ad essere al contempo adoranti e rapaci.
Galizia
si concentrò di nuovo sul menù per celare l’imbarazzo
per quello sguardo penetrante che lei stessa aveva sollecitato e che
ora le intiepidiva la pelle.
Durante
il pranzo le parole tra loro fluttuavano leggere, i gesti erano
misurati, convenzionali, solo gli occhi tradivano l’instaurarsi
di un dialogo sempre più intimo. Era un gioco segreto di
piccole vicendevoli provocazioni, lo sguardo di lui che sembrava
vedere oltre i vestiti, il corpo di lei che anziché sentirsi
depredato s’inorgogliva a quell’indagine minuziosa.
Questa
poltroncina sarebbe davvero adatta, disse lui indicando una
rientranza del muro poco distante da loro, dove un tavolino, una
lampada dalla luce tenue e, appunto, una poltroncina creavano un
angolo raccolto.
Adatta
a cosa?, chiese Galizia con una sottile malizia, sicura che il
pensiero di Corrado non fosse del tutto innocente.
Perché
tu suonassi.
Vorrebbe
che mi esibissi di nuovo in pubblico?
No.
Non in pubblico, sarebbe un’esecuzione assolutamente privata.
Non
è possibile! Come facciamo ad allontanare camerieri e
avventori?
Con
la fantasia!
Non
capisco.
Non
posso modificare la realtà, ma nulla mi impedisce di
immaginare come sarebbe una tua esecuzione solo per me. Nei minimi,
privatissimi, dettagli.
Le
ultime parole Corrado le pronunciò a voce bassa e dura
sporgendosi verso Galizia. Lei fu percorsa da un brivido.
Mi
faccia entrare nella sua fantasia. Mi racconti ogni dettaglio come
fosse vero, e senza usare il condizionale.
L’uomo
scosse la testa e la guardò a lungo con una sorta di comunione
prima di rispondere:
Le
parole non servono più, siamo già nella stessa bolla.
Sai con esattezza ogni gesto che seguirà. Accadrà tutto
nelle nostre menti.
Sul
viso di Galizia si dipinse un’espressione delusa ma poi lei
trovo la forza di sorridere a quell’uomo strano.
Il
pranzo volse al termine in una atmosfera di vaga mestizia appena
attenuata dalla loro inespressa complicità. Nulla in realtà
poteva succedere tra loro.
Corrado
pagò il conto, ripiegò la ricevuta e la fece scivolare
nella mano di lei.
Conservala
e guardala quando avrai il dubbio che noi non ci si sia mai
incontrati. Ci sono scritti solamente i nomi dei piatti che abbiamo
consumato, ma tu ci leggerai ben altro, come fosse uno spartito che
solo tu sai interpretare.
Uscirono
alla luce feroce, dopo la penombra avvolgente del locale.
Si
salutarono sulla porta con una disinvoltura un poco falsa, poi ognuno
prese la sua strada.
Galizia
lo osservò avviarsi a passi decisi verso la stazione. Lei si
mosse più lentamente, appesantita dal violoncello e da un
pensiero prepotente. Appena a casa avrebbe suonato un brano di
Boccherini che per un istante aveva immaginato di eseguire solo per
lui, lì sulla poltroncina. Ma la prepotenza del pensiero
consisteva in altro: nella solitudine del suo appartamento avrebbe
suonato nuda. Glielo doveva, anche se Corrado non l’avrebbe mai
saputo.
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