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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  La poltroncina, di massimolegnani 14/05/2020
 
La poltroncina

di massimolegnani



Lei aveva questo nome strano, Galizia, impostole dal padre a ricordo del “camino” fino all’estrema regione spagnola che aveva a lungo sognato di compiere e mai aveva effettuato. Questo, cioè il fatto di essere riferimento a qualcosa di non realizzato, aveva probabilmente inciso sul suo carattere, Galizia infatti era cresciuta tra timori, incertezze e qualche passo falso, e ancora adesso, nonostante possedesse indubbie qualità morali e fisiche, sentiva il bisogno di continue rassicurazioni. La dicevano scontrosa e chiusa, ma non sapevano che lei era un fiore in ombra che solo al sole apre i propri petali.

Lui fu il sole, per quel giorno almeno, e per circostanze fortuite che di certo superavano i suoi meriti reali. Si era ritrovato tra il pubblico sparuto che assisteva in piazza Santo Stefano alla sua esecuzione di alcune partiture di Bach, in margine al festival dedicato al grande tedesco che si teneva in molti punti della città.

Galizia stava china sul proprio violoncello per estraniarsi dai rumori della piazza e per apparecchiare con diligenza il brano, una nota dopo l’altra come posate d’argento e bicchieri di cristallo su una tavola imbandita a festa.

Ogni volta che sollevava lo sguardo incontrava i suoi occhi attenti. Lei, allieva del locale conservatorio, fino a quel momento aveva suonato faticosamente, più con la tecnica che con il cuore, disturbata dall’andirivieni distratto della gente. Si sentiva ferita dallo scarso interesse del pubblico, poco amata nella sua fragilità. Ma ora quegli occhi la stavano “ascoltando”, seguivano con commozione le note che uscivano dallo strumento, in qualche modo la incoraggiavano a suonare meglio, con più passione. Erano suggerimenti muti che lei percepiva come parole calde dette sottovoce. L’uomo a un certo punto si era accovacciato a un metro da lei, in un equilibrio precario che riuscì a mantenere per oltre un’ora.

Al termine di ogni brano egli applaudiva in modo contenuto, quasi compassato, accompagnando però il gesto delle mani con un sorriso compiaciuto che poteva sembrare paterno e che in realtà racchiudeva emozioni più sottili, vagamente ambigue.

Con una certa frequenza cadevano nella custodia aperta dello strumento monete tintinnanti, mai quelle dell’uomo che pure era diventato per la ragazza l’ascoltatore più prezioso. Galizia non ne fu dispiaciuta, anzi ebbe l’impressione che il suo mancato obolo lo ponesse in una posizione privilegiata rispetto al resto del pubblico. Era come se lui le sussurrasse che la sua musica non la si poteva comprare col vile denaro.

Quando la giovane donna concluse la propria esecuzione, l’uomo le si avvicinò per complimentarsi, una bravura sorprendente, piacevolmente acerba, le disse. E con educata sfrontatezza la invitò a pranzo, un piccolo gesto, aggiunse, di riconoscenza per quanto di sublime ho appena ascoltato.

Era tale la sintonia che si era instaurata silenziosamente tra loro che a Galizia parve del tutto comprensibile la sua richiesta e con altrettanta naturalezza acconsentì con un semplice sorriso alla proposta. Volle dare un nome a quegli occhi e glielo chiese. Corrado, disse lui mentre con disinvoltura si metteva a tracolla l’ingombrante strumento.

S’incamminarono per le vie del centro, ma non andarono subito a pranzo, preferirono vagare per la città che lui non conosceva e che lei sembrava aver dimenticata nonostante ci vivesse, tanto era frastornata dagli ultimi avvenimenti. Mentre parlavano con leggerezza e serietà degli argomenti più disparati riscontrando curiose divergenze e insperati punti di contatto, le une e gli altri accettati con pari divertimento, Galizia si rese conto che il sole stava raggiungendo i suoi petali.

Quando alla fine entrarono in un ristorante, scelto unicamente per il nome accattivante, libri & cibi, i due avevano già un affiatamento che altri impiegano mesi a raggiungere.

Furono fatti accomodare in una saletta interna dove regnava una penombra confortevole. Pochi tavoli, alcuni vecchi specchi alle pareti che rimandavano la luce morbida di abatjour sistemati in punti strategici, libri sparsi ovunque, ogni cosa contribuiva a diffondere un’atmosfera tranquilla.

Mentre Galizia studiava la lista dei piatti Corrado si guardò intorno, incuriosito dalla particolarità del luogo e palesemente attratto dalle donne più o meno affascinanti che attraversavano la saletta. Lei se ne accorse e chiuse di scatto il menù:

Lei con il suo sguardo competente ha guidato la mia musica come fossi stata una sua allieva. Mi piacerebbe che continuasse a posare gli occhi su di me con la medesima intensità, anche se non sto più suonando.

Era al contempo un rimprovero e una richiesta, candida, disarmante.

L’uomo le sorrise ma non si scusò:

Tu sei perfetta in questa cornice, emani ancora la sensualità della musica.

See, perfetta! Intanto lei guarda ogni donna che passa.

Per quanto le sue parole fossero stizzite, lei non riusciva a dargli del tu. Troppo “maestro”, lui.

Corrado rise e fece un gesto con la mano come a dire che le altre non avevano alcuna importanza, ma Galizia insistette:

Tra poche ore lei tornerà a essere uno sconosciuto…

Non completò la frase, lasciando che lui intuisse il non detto.

Sembrava l’inizio di una schermaglia che sarebbe potuta sfociare in un odioso battibecco ma l’uomo si mostrò remissivo:

Hai ragione, sto perdendo minuti preziosi in cose futili mentre tu meriti tutto il mio interesse. In realtà non chiedo altro che continuare a guardarti.

L’uomo fissò la musicista con una dolce prepotenza, i suoi occhi riuscivano ad essere al contempo adoranti e rapaci.

Galizia si concentrò di nuovo sul menù per celare l’imbarazzo per quello sguardo penetrante che lei stessa aveva sollecitato e che ora le intiepidiva la pelle.

Durante il pranzo le parole tra loro fluttuavano leggere, i gesti erano misurati, convenzionali, solo gli occhi tradivano l’instaurarsi di un dialogo sempre più intimo. Era un gioco segreto di piccole vicendevoli provocazioni, lo sguardo di lui che sembrava vedere oltre i vestiti, il corpo di lei che anziché sentirsi depredato s’inorgogliva a quell’indagine minuziosa.

Questa poltroncina sarebbe davvero adatta, disse lui indicando una rientranza del muro poco distante da loro, dove un tavolino, una lampada dalla luce tenue e, appunto, una poltroncina creavano un angolo raccolto.

Adatta a cosa?, chiese Galizia con una sottile malizia, sicura che il pensiero di Corrado non fosse del tutto innocente.

Perché tu suonassi.

Vorrebbe che mi esibissi di nuovo in pubblico?

No. Non in pubblico, sarebbe un’esecuzione assolutamente privata.

Non è possibile! Come facciamo ad allontanare camerieri e avventori?

Con la fantasia!

Non capisco.

Non posso modificare la realtà, ma nulla mi impedisce di immaginare come sarebbe una tua esecuzione solo per me. Nei minimi, privatissimi, dettagli.

Le ultime parole Corrado le pronunciò a voce bassa e dura sporgendosi verso Galizia. Lei fu percorsa da un brivido.

Mi faccia entrare nella sua fantasia. Mi racconti ogni dettaglio come fosse vero, e senza usare il condizionale.

L’uomo scosse la testa e la guardò a lungo con una sorta di comunione prima di rispondere:

Le parole non servono più, siamo già nella stessa bolla. Sai con esattezza ogni gesto che seguirà. Accadrà tutto nelle nostre menti.

Sul viso di Galizia si dipinse un’espressione delusa ma poi lei trovo la forza di sorridere a quell’uomo strano.

Il pranzo volse al termine in una atmosfera di vaga mestizia appena attenuata dalla loro inespressa complicità. Nulla in realtà poteva succedere tra loro.

Corrado pagò il conto, ripiegò la ricevuta e la fece scivolare nella mano di lei.

Conservala e guardala quando avrai il dubbio che noi non ci si sia mai incontrati. Ci sono scritti solamente i nomi dei piatti che abbiamo consumato, ma tu ci leggerai ben altro, come fosse uno spartito che solo tu sai interpretare.

Uscirono alla luce feroce, dopo la penombra avvolgente del locale.

Si salutarono sulla porta con una disinvoltura un poco falsa, poi ognuno prese la sua strada.

Galizia lo osservò avviarsi a passi decisi verso la stazione. Lei si mosse più lentamente, appesantita dal violoncello e da un pensiero prepotente. Appena a casa avrebbe suonato un brano di Boccherini che per un istante aveva immaginato di eseguire solo per lui, lì sulla poltroncina. Ma la prepotenza del pensiero consisteva in altro: nella solitudine del suo appartamento avrebbe suonato nuda. Glielo doveva, anche se Corrado non l’avrebbe mai saputo.







 
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