Quinto
piano senz’ascensore
di
massimolegnani
Il
palazzo settecentesco di piazza Filiberto aveva avuto il suo periodo
di splendore e ancora adesso nonostante i ripetuti rimaneggiamenti e
il diffuso grigiore della facciata manteneva una sua dignità,
vagamente nobiliare.
Panfilio
de Nittis ci passava davanti ogni mattina andando in banca, anziano
impiegato dalla minima carriera, e sempre gli lanciava un’occhiata
piena di ammirazione e desiderio, abitare lì sarebbe stato un
riscatto dalla sua vita scialba. Non inganni il nome di famiglia
altisonante, suo nonno, prima ancora che lui nascesse, aveva
provveduto a sperperare con metodo e costanza ricchezza e nobiltà
fino al suicidio di prammatica e da lì i de Nittis non si
erano più ripresi. Nonostante ciò suo padre gli aveva
imposto quel nome impossibile, già appartenuto ai suoi
antenati, nella speranza che fosse di stimolo a recuperare una
posizione più consona nella società. Ma la cosa non
aveva funzionato. Lui se lo portava addosso con rassegnazione, come
un abito lussuoso pieno di rammendi e decisamente fuori moda.
Quando
seppe che nel palazzo vendevano alcune mansarde appena ristrutturate,
Panfilio, in procinto di andare in pensione e di ricevere una
relativamente sostanziosa liquidazione, sentì che era arrivata
la sua occasione. Contattò l’agenzia, visitò
l’appartamento, un unico ampio locale soppalcato con travoni a
vista e doghe bionde al pavimento. Dal terrazzino dominava i tetti
della città e l’arco delle montagne. Gli piacque.
Vi
era solo il problema dei cinque piani di scale a piedi, Sa non
sono più un giovanotto e sarà sempre peggio, disse
sconsolato, ma fu rassicurato dall’agente immobiliare che gli
mostrò due progetti, uno per un ascensore esterno, in cortile,
l’altro interno nella tromba delle scale. Alla prossima
riunione condominiale avrete solo da decidere quale approvare e in
men che non si dica verrà installato. Panfilio si disse
che qualche mese di ginnastica su e giù per i gradini gli
avrebbe fatto bene e firmò fiducioso.
La
prima assemblea condominiale gli fece capire che i tempi di realizzo
dell’opera non sarebbero stati affatto brevi: i proprietari del
primo piano fecero un’opposizione feroce a qualsiasi progetto,
gli altri si divisero equamente tra chi si batteva per l’ascensore
in cortile, meno costoso e più rapido nell’installazione
e chi difendeva la sua collocazione nella tromba delle scale,
soluzione più tradizionale ma che avrebbe implicato lo
spostamento della prima rampa di scale per questioni di ingombro
della struttura.
I
primi tempi Panfilio visse la quotidiana ascesa al quinto piano con
discreto entusiasmo: cercava sin dai primi gradini il ritmo giusto,
lento e cadenzato, come fosse in montagna, per arrivare al quarto
pianerottolo senza interruzioni e lì concedersi una sosta di
uno due minuti prima del balzo finale. Beh, balzo era una parola
grossa, quell’ultima rampa anche dopo aver rifiatato era un
impegno non da poco. La difficoltà maggiore era quando tornava
a casa con i sacchetti della spesa che moltiplicavano lo sforzo
richiesto al suo fisico non certo atletico. Quasi subito rinunciò
all’acqua minerale, trasportarla per le rampe nella “pratica”
confezione da sei bottiglie era stata un vero martirio che non volle
più ripetere. Si procurò uno zaino in cui ficcare parte
degli acquisti in modo da avere almeno una mano libera per tenersi
alla ringhiera. Cercò poi nel quartiere negozietti di
alimentari che facessero consegne a domicilio, ma il più delle
volte i garzoni citofonavano e, sentito dove abitava, lasciavano lo
scatolone con le provviste appena oltre il portone e pazienza per i
pochi, ipotetici, spiccioli di mancia a cui stavano rinunciando.
Ci
vollero due anni e cinque infuocate assemblee prima che venisse
approvato il progetto-ascensore. Prevalse la soluzione
“interna”. Nel frattempo Panfilio aveva ridotto al minimo
le uscite di casa ed era passato a due soste programmate
nell’affrontare la scala, una a metà tra il secondo e il
terzo piano, dove fiato e gambe cedevano di schianto, l’altra,
più prolungata, al quarto, dove spesso si accasciava sui
gradini sibilando come un mantice bucato. Alla fine si rivolse al suo
medico spiegandogli che pur non essendo asmatico gli sembrava che su
quelle maledette rampe a un certo punto l’aria gli restasse
intrappolata nei polmoni, non entrava e non usciva e lui boccheggiava
come un pesciolino rosso fuori dalla boccia. Asma da sforzo,
sentenziò il dottore che ebbe da ridire sulla metafora del
pesciolino, più appropriata sarebbe una balena rise
divertito, solo lui, dalla propria arguzia. Poi fece scivolare sulla
scrivania una confezione di Ventolin, due spruzzi prima di salire,
altri al bisogno. Fu tutto, nemmeno lo visitò, ma in
effetti la cura funzionò. Non che Panfilio ora facesse i
gradini quattro alla volta, anzi saliva con la solita cautela, ma
almeno saliva. E in cima gli sembrava di avere ancora un po’ di
fiato, era il cuore, semmai, che gli batteva come una grancassa.
Ulteriori
rinvii nella realizzazione del progetto furono dovuti alla
Sovrintendenza alle belle arti che dopo alcuni rifiuti concesse il
nullaosta con la clausola di usare per i gradini da spostare il
medesimo granito del resto della scala.
Alla
fine, con solo quattro anni di ritardo, l’ascensore fu
installato.
Panfilio
fu uno dei primi a utilizzarlo e fu un’ebbrezza mai provata,
un’ascensione spirituale, un breve viaggio in mongolfiera fino
alle cime innevate del quinto piano, un affrancamento ormai insperato
da quella disumana fatica quotidiana.
Purtroppo
potè usarlo solo tre volte. Alla quarta l’ascensore si
bloccò a metà salita, imperversava sulla città
un temporale di biblica intensità ed era saltata la corrente
in tutto il quartiere. Panfilio, intrappolato nella gabbia d’acciaio,
suonò ripetutamente l’allarme, urlò a
squarciagola invocazioni d’aiuto, fece ricorso più volte
al Ventolin e attese agitato che lo venissero a liberare. Quando,
dopo ore, i tecnici della ditta e i vigili del fuoco riportarono la
cabina al piano l’uomo era accasciato sul fondo, privo di
coscienza. Era ancora vivo ma respirava in modo irregolare, piccoli
sussulti inefficaci, preludio di una fine imminente. Probabilmente
gli aveva ceduto il cuore.
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