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  Scritti di altri autori  »  Narrativa  »  Il passerotto liberato, di Sergio Menghi 05/05/2021
 
Il passerotto liberato

di Sergio Menghi



Ho già parlato di quel campo denominato 'longarina' e delle sue tre quercie secolari la cui ombra era rifugio ambito per ristorarsi un pò durante i lavori, specialmente quando il sole spaccava le pietre, come si soleva dire, nei mesi di luglio ed agosto.

La storia che vorrei raccontare è avvenuta prima, fine maggio primi di giugno, quando il campo mostrava le sue alte messi fiorite di papaveri, erba medica matura e pronta per essere sfalciata ed essiccata, da trasormare in fieno, foraggio prezioso per alimentare buoi e mucche ed altri animali domestici come conigli, capre e pecore.

Il lavoro di falciatura richiedeva diverse giornate e molta forza fisica, quindi erano gli uomini, che iniziavano il mattino presto di buon ora e verso le ore dieci circa consumavano una breve colazione, ma sostanziosa a base di uova fritte o sode, formaggio, prosciutto e, ovviamente, non doveva mancare il pane ed il vino, se poi ci fossero stati dei dolci non sarebbero andati a male.

Quella mattina la nonna aveva messo nel cesto delle vivande anche un salame, prodotto in quasi tutte le famiglie coloniche di quel tempo, chiamato ciavuscolo 'ciausculu'. Si confezionava nel mese di gennaio, quando venivano uccisi i maiali e si faceva la pista, cioè si macellava la carne e si ottenevano vari prodotti, salsicce, prosciutto, cotechini, guanciale 'varbaglia', zamponi 'zampitti', lonze ed altro ancora; del maiale si consumava tutto, non si mandava niente a male.

Gran parte di questi prodotti venivano poi stagionati in appositi locali, freschi ed asciutti, chiamati dispense, e si usavano tutto l'anno fino al prossimo inverno, quando il processo veniva rinnovato con i nuovi maiali che io avevo portato al pascolo con tanta cura e dedizione.

La fase di ingrasso veniva però curata dalla nonna che ogni giorno accudiva i maiali tenuti nella porcilaia, trasportando pesanti secchi di pastone a base di patate, semola di grano tenero, mais triturato, bietole ed altre verdure di stagione. Al momento della mattanza, non nascondo, provavo un pò di dispiacere, ma pensando ai succulenti prodotti che ci fornivano quegli animali, trovavo un po’ consolazione.

Quando iniziavano i lavori duri dei campi si cominciava anche a consumare questi prodotti che apportavano la giusta dose di calorie necessarie.

Il ciavuscolo o 'ciausculu' si produce ancora oggi, ma non più nelle fattorie, dalle famiglie rurali che sono del tutto scomparse a seguito della urbanizzazione, di cui vorrei parlare più avanti, bensi da aziende agricole che lo commercializzano con i metodi ora in uso. La qualitá del prodotto è comunque molto buona e tipica delle nostre zone ed è molto richiesta.

A portare quella mattina nel campo la colazione, detta 'buccuncillu', cioè piccolo boccone, che poi non era tanto piccolo, andammo la mamma ed io. Apparecchiammo all'ombra delle querce, sopra l'erba appena sfalciata che emanava un forte profumo di freschezza. Il prato pullulava di insetti, scossi dal passaggio della falce ed in cerca di una nuova sistemazione. Si distinguevano le coccinelle, per il colore rosso vivace, maculato da macchie nere, formiche, grilli, cavallette, ragni, api, che si affrettavano a succhiare l'ultimo nettare per poi volare e fecondare i fiori dei vari alberi da frutto nel vigneto e nell'orto.

Mio padre, mio zio e mio nonno si sedettero per terra e mia madre iniziò a distribuire i pasti. Quando avevamo quasi finito di mangiare e si faceva un piccolo breck prima di ricominciare il lavoro, un passerotto, che dall'alto della quercia centrale stava imparando a volare con l'aiuto della mamma, l'abbiamo visto cadere sulla tovaglia ancora apparecchiata, forse con le forze stremate per l'inesperienza, ma poteva anche essere stato attratto dalle numerose briciole sparse sul telo di stoffa.

Con l'istinto venatorio, che doveva essere certamente presente nel mio dna, mi sono subito avventato sul piccolo uccelino afferrandolo e trattenendolo nelle mie piccole mani ed ho cominciato ad osservarlo con molta curiosità. Non mi era mai capitato di tenere così vicino un piccolo uccellino che mi guardava con i suoi piccoli occhietti cercando forse di capire le mie intenzioni e, di tanto in tanto, si dimenava senza riuscire a liberarsi.

Sentivo il suo piccolo cuoricino battere alla velocità del suono e la sua mamma, dalla sommità della quercia, emetteva forti richiami e lamentosi stridii.

Dopo un pò di tempo da me passato a registrare tutte queste novità, mia madre mi disse:"perchè non lo liberi, non senti come la sua mamma è disperara?".

Io non ho ubbidito subito, pensavo di portarlo a casa ed allevarlo mettendolo in gabbia. Avrei avuto un piccolo amico cui pensavo di riservare tutte le migliori cure e premure in cambio di un pò di canto e di compagnia, ma alla fine ho capito che, come per me, la migliore vita era quella in compagnia della propria mamma.

Ho indugiato ancora un pó allentando forse la presa, tanto da far comprendere che stavo maturando una decisione importante per la sua salvezza.

Lui adesso mi guardava fisso ed implorante con i suoi piccoli occhietti come per dirmi: "che aspetti, non senti quello che ti dice tua madre?".

Fu così che lo rilanciai in aria e la sua mamma si precipitò quasi fino a terra per sostenerlo e riportarlo in quota nel suo ambiente a me estraneo. Forse sarà per questo che in molte notti di quel periodo sognavo di volare ed il mattino mi svegliavo felice e risollevato da angosce che, anche allora, non potevano mancare.


 
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