Ritratto
in cornice
di
Grazia Giordani
Mi
ha sempre incuriosita la figura di una prozia di mia madre: Eunice.
Da bambina, trovai per caso il suo ritratto in granaio tra vecchie
corone, nastri di raso consunti – di quelli con la scritta «I
tuoi cari… La tua sposa adorata» - e un nido di topolini
neonati, rosei e senza pelliccia, nudi come la mano.
Si
trattava di un ritratto ovale in cornice sottile e scura, coperto da
un velo polveroso, scheggiato nel mezzo. La scheggiatura dava uno
strano effetto ammiccante all’occhio destro di Eunice. Pareva
che la biondina del ritratto facesse l’occhiolino, presaga del
destino che l’attendeva. Aveva ricevuto l’educazione dei
suoi tempi: ricamo, cucito, disegno, un po’ di francese, buone
maniere e soprattutto culto dell’ UOMO: padre, fratello, futuro
marito, sempre padrone.
Era
stata confinata in granaio, in quanto ritratto, e cancellata dalla
famiglia in quanto persona, perché, rompendo le ferree
tradizioni di casa sua, era fuggita con un violinista conosciuto a
teatro. Forse non era Paganini, visto che si esibiva in teatri di
provincia, ma aveva, agli occhi di Eunice, un alone spiritualmente
romantico estraneo ai suoi fratelli farmacisti, odorosi di valeriana
e trementina, nonché sanguigni cacciatori, Il padre era un
uomo oppresso dagli acciacchi, reso arido dalle noie quotidiane.
Portava una curiosa papalina grigia a coprire la calvizie tipica di
tutti gli uomini della sua famiglia.. Forse, fu alla vista delle
nozze forzate della mia bisnonna Rosa, sua sorella maggiore, con un
uomo non di sua scelta, che Eunice trovò l’incosciente
coraggio di lasciare gli odori mentovati della farmacia, la passività
della madre, l’inutilità dei suoi giorni al telaio ( a
ricamare una dote che non avrebbe mai usato) per seguire il
violinista, ricco solo del suo violino.
Sono
contraddittorie le notizie inerenti la sua futura sorte. C’è
chi dice che regolò la sua posizione con nozze riparatrici e
che ebbe due figli, pure avviati alla musica. Dicono che si sia
stabilita in città, aprendo un laboratorio di ricamo e che un
abitante del suo paese l’abbia vista a teatro, una sera, al
seguito del marito, riscaldarsi le mani in un morbido manicotto di
pelliccia, appagata.
Preferisco
pensarla in piccole stanze di pensione, senza l’obbligo di
rassettare, cucinare, lieta di lavarsi nella gelatissima acqua di
decorati catini e di trovare calore, la sera, tra le braccia asciutte
e le mani piene di musica del suo amante.
Mi
piace l’aura proibita della sua storia sussurrata a mezza voce
in famiglia, sempre negata con gli estranei. Immagino il suo
violinista, magro per le scarse cene, vibrante di musica che gli
titilla dentro assoli delicati come velate gioie.
Rivedo
la chiara occhiata, resa ambigua dall’incrinatura del vetro, il
naso gentile, il mento deciso, il collo sottile che esce dalla rouche
che lo costringe, un piccolo riccio che sfugge sotto l’orecchio,
indisciplinato, incurante delle regole.
Spesso,
nei miei anni infantili, ho provato a dare una voce ad Eunice, ad
immaginarla al telaio, a riprovare con lei e attraverso lei,
l’emozione della prima volta che ha udito l’archetto del
suo musicista scorrere sulle corde del violino. Forse, la voce
vibrata delle corde le avrà detto parole che gli uomini di
casa sua non avevano mai saputo dire. Le mani sottili del violinista
non avevano mai estratto dai vasi le molli sanguisughe da salasso per
applicarle alla gola dei malati, non avevano mai estratto dal
carniere le folaghe stecchite, mai rimestato veleni. Eppure, a lei
avevano fornito l’incanto di un veleno sconosciuto.
Avrà
mai ripensato, Eunice, alle noiose sicurezze della sua casa? I pasti
a orario fisso, il vociare sommesso dei clienti in farmacia, la
selvaggina insanguinata, cacciata dai fratelli? Forse, avrà
rivisto il gradino sbrecciato ove, da piccola, inciampò
ruzzolando rovinosamente dalle scale. Conservava ancora una pallida
cicatrice, persa tra i riccioli del collo.
Avrà
rivisto la zuccheriera azzurra delle sue prime colazioni, i gerani
stenti del terrazzo, le tende rosse arabescate in oro sbiadito, il
libro delle preghiere, rilegato in pergamena, il ricamo a larghi
trafori rimasto incompiuto dalle sue mani ormai svogliate, premute da
pensieri di evasione.
Forse,
la sua natura istintiva ed appassionata le avrà impedito di
perdersi in dubbi, di pensare alle angustie di una vita da
bohémienne.
Partì
quasi senza bagagli, senza denaro, con tante illusioni nel cuore.
Non
riesco a pensarla invecchiata, preferisco vederla con i riccioli
ribelli che scivolano dietro le orecchie, il mento dai netti
contorni, l’azzurro sguardo senza ferite.
Non
voglio che gli anni la insultino, togliendo alla musica del suo
violinista, l’antico trillo d’amore.
Tratto
da “L’anima del gatto”,
Bagaloni editore (pp.45-48)
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