Intervista
a Ferdinando Camon del giornale "Ara" di Barcellona
Il suo primo libro, del 1970, è “Il quinto stato”.
Sempre negli anni settanta ha pubblicato “La vita eterna” e “Un altare per la
madre”. Tutti e tre sono romanzi in cui la propria esperienza è di grande
importanza. Sarebbe così gentile da spiegarci le somiglianze e le differenze
tra questi tre libri e come è cambiata, se è cambiata,
la sua narrativa?
-
Dentro di me penso che “Il quinto stato” è la geografia
della civiltà contadina, “La vita eterna” è la storia e “Un Altare per la
madre” è un inno. Prima ho passato in ricognizione la civiltà contadina,
campagne case stalle buoi tori, i riti, gli esorcismi, la paura del diavolo, il
culto dei morti, la stregoneria. Poi ho narrato l'irruzione della storia, la
seconda guerra mondiale, l'arrivo dei tedeschi, gli attentati selvaggi e senza
ideologia dei partigiani-contadini, le rappresaglie sanguinarie, gli incendi,
le impiccagioni. Infine ho alzato un inno alla potenza epica del Cristianesimo
della campagna, capace di affrontare la morte e darle un senso. Cosa che da
mezzo secolo noi, nelle città, non sappiamo più fare. Allora morivano
consolati. Oggi moriamo disperati.
“Un altare per la madre” inizia con la morte della madre del narratore, che spiega il contrasto tra la vita
contadina con i genitori e la città dove abita nel presente. La prima grande
differenza è di carattere linguistico: la madre parlò soltanto due volte in
italiano. Il narratore scrive: “Scrivo queste cose in
italiano, cioè le traduco in un'altra lingua. Colui
che non gli è permesso di usare la propria lingua non può essere felice
e sentirsi libero.” È persa in Italia la battaglia per conferire dignità alle
lingue minoritarie?
- La
regione Veneto non è una nazione e il dialetto veneto non è una lingua. Nella
Pianura Padana i dialetti cambiano ad ogni provincia,
il che vuol dire che chi parla un dialetto, se si sposta di 40 chilometri non
viene più capito. Io volevo scrivere per il mondo. E per fare
così dovevo tradurre le mie storie dialettali nella lingua italiana, che per i
miei contadini non è la lingua della vita, ma la lingua dello Stato, del
Servizio Militare, delle tasse, dei carabinieri, dei tribunali… «Un Altare per
la madre» è scritto in una lingua italiana alta, i precedenti romanzi erano
scritti in un misto di lingua nazionale e lingua dialettale: ma per tradurli
l'editore francese Gallimard dovette bandire un concorso, convocare dieci
traduttori, fargli tradurre il primo capitolo, e poi esaminare le traduzioni
per scegliere la migliore. Noi veneti non comprendiamo i piemontesi, i
liguri e i napoletani, e loro non capiscono noi. In Italia siamo una babele.
Uno degli aspetti che può sorprendere di più i giovani
è che la famiglia non conserva nessuna fotografia della madre che le sia
fedele. “Non avevamo nessun mezzo per ricostruirlo, nessun
punto da cui partire”, spiega il narratore. Ciò nonostante, l'effetto che
raggiunge per mezzo della sua prosa –con la letteratura- è probabilmente più
perenne di quello di un album d'immagini. È d'accordo? Perchè
crede che sia così?
- Sì,
oggi sono d'accordo. Io ho insegnato Letteratura (Italiana, Latina, Greca)
nelle scuole, e so che il prodotto umano più duraturo è il libro. Esiste
l'Iliade, ma non esiste più Troia. Esistono i Salmi,
ma non esiste più la cetra di Davide. Tuttavia quando
scrivevo l'“Altare” ero pieno di dubbi, e dunque di
disperazione. Temevo di non essere capito. La letteratura italiana allora era
piena di libri sulla fabbrica e sugli operai, nessuno si occupava di contadini.
E la cultura italiana era marxista, materialista, atea, non aveva nessun dubbio
che la morte è la fine di tutto. Il concetto italiano di immortalità era stato costruito per sempre da Ugo
Foscolo, col suo poema “I Sepolcri”, che tutti i ragazzi imparano a memoria in
tutte le scuole: per il Foscolo si salvano solo i Grandi, i Geni, gli
Scienziati, i Poeti… Dante, Petrarca, Galileo, Michelangelo, Machiavelli… : se
non vuoi morire, devi diventare un grande. Era un messaggio disperante per me,
e per tutti. Io volevo dare un po' di ricordo a figure minime, insignificanti,
sepolte fuori-storia, volevo scrivere un librino per loro. Sono molto sorpreso
nel vedere che il librino attraversa i decenni e i continenti.
La madre vede soltanto un film in tutta la sua vita.
“Il cinema rimase sempre per lei un luogo di torture”, scrive il narratore.
L'impressione che suscita in lei “Il segno della croce” la fa pregare nel
cinema. Il narratore spiega come sua madre aveva una gran capacità di spiegare
soprattutto storie di santi. Fine a che punto l'oralità l'ha influita nello
scrivere i suoi libri?
-
Moltissimo. Io scrivo, ma mentre scrivo sento le
parole orali nelle mie orecchie, cioè dentro di me parlo. È per me un dolore
che chi legge i miei libri, non possa sentire il suono orale delle parole che
trova scritte. Il dialetto è soltanto orale. Il giornale, scritto in italiano,
che arriva nelle osterie di campagna, è un comunicato del nemico. Ho un figlio
che vive a Los Angeles, mentre passeggiavo per Hollywood Boulevard
un italiano emigrato mi ha riconosciuto e mi ha parlato in dialetto, ho tremato
per mezz'ora. Non sento mai la mia lingua natia, vivo dalla mattina alla sera
in mezzo al nemico.
Nella prefazione all'edizione catalana lei ricorda il
viaggio a Istanbul per presentare la traduzione turca. Afferma che temeva che
il libro non fosse bene accolto, però dice : “Tutti i
misticismi nel mondo si toccano.” Lei è del parere che sia quest'aspetto di
devozione sincera quello che permette che il libro sia così ben accolto
dappertutto?
- No,
penso un'altra cosa. E cioè: tutti, anche quelli che non hanno letto Jung, sentono che il libro racconta l'invenzione di un rito
di salvezza, e tutti hanno bisogno di conoscere questo rito. Non è un rito
scavato in un fondo cristiano, ma in un fondo umano,
antropologico. Anche i marxisti e gli islamici possono sentirlo, e accettarlo.
Il narratore afferma che era convinto “che lei sarebbe esistita per sempre, come il mondo”. La sua morte
sembra che svegli la coscienza della propria mortalità. Il mondo attuale ha
perso la serenità con la quale il narratore affronta l'estinzione inevitabile?
-
Rispondere a questa domanda è per me difficilissimo. Io ero convinto, fino
all'età di cinquant'anni, di non morire mai. Lo so che è difficile dirlo, e difficile crederlo, ma questa è la verità. Quando mi trovo con
gli amici, scrittori, docenti universitari, ci domandiamo: “Ma tu a che età hai
capito che un giorno morirai?”. Uno risponde a trent'anni, uno a quaranta, uno
a cinquanta… Consideriamo più felice colui che l'ha
capito più tardi. La felicità presuppone che non sappiamo che un giorno
moriremo.
La scomparsa della madre simbolizza la morte del mondo
contadino? Ha senso, ancora, parlare di mondo contadino o è andato perso per
sempre?
- La
civiltà contadina è una condizione fideistica, conservatrice, legata alla
terra, agli animali, ai riti religiosi, a valori umani quali la pietà e la
solidarietà, tutto questo è stato perduto con l'entrata nel mondo dei soldi,
delle macchine, della borghesia, del consumo, dello spettacolo. L'arricchimento
ha portato la morte di una civiltà. Con la morte di quella civiltà è morta una
specie di famiglia, di uomo, di Dio, una lingua, un idea
di morte e di aldilà. Adesso arrivano da ogni parte del mondo
uomini poverissimi, che non sanno fare niente, perché nei paesi
d'origine erano contadini, pastori, braccianti. Sono religiosi fanatici. Hanno
credenze fortissime. Nel giro di 2-3 generazioni si integreranno,
entreranno nella civiltà del progresso, e perderanno la civiltà originaria. La
storia è un ciclo. Il nostro passato è il futuro di altri popoli.
“Come dev'essere orribile
essere un soldato, essere un impiegato, essere un cittadino obbediente alle
regole”, leggiamo nel libro. La scrittura è stata la sua maniera di scappare da
questa obbedienza? È del parere che lo scrittore disobbediente
sta perdendo in favore dello scrittore che cerca un accomodamento facile nel
mercato?
- Sì,
certo, sto perdendo e lo so. I libri sono “prodotti” o sono “opere”. Lo
scrittore che scrive “prodotti” ha più fama, più potere, più mercato, più successo
dello scrittore che scrive “opere”. Una volta Gallimard m'ha
chiamato a Parigi, dove usciva un mio libro, per un'intervista in tv. Ci vado.
M'intervistano insieme con uno scrittore francese, nove minuti a lui e un minuto a me. Era un evaso dalla Cajenna,
che aveva scritto le sue memorie.
Prima di scrivere “Un altare per la madre” conosceva
altri esempi letterari in cui lo scrittore omaggia la
madre? Sono stati dei punti di riferimento per lei? Ne ha conosciuto
altri dopo?
-
Mentre usciva il mio “Altare”, presso il mio editore italiano, Garzanti, usciva
anche un libro del mio coetaneo Peter Handke, “Infelicità senza desideri”.
Stranamente, il libro di Handke usciva anche presso gli altri miei editori
stranieri, Gallimard in Francia, Losada in Argentina,
insomma lo trovavo insieme col mio in tutto il mondo. È un libro bellissimo,
dal messaggio esattamente opposto al mio. Un messaggio disperato. La madre di
Handke è morta suicida, e il figlio è fiero del suicidio.
Il suo primo libro, “Il quinto stato”, uscì con una
prefazione di Pier Paolo Pasolini. Questi giorni Barcellona dedica una mostra
allo scrittore e regista. Che rapporto ebbe con lui?
-
Pasolini è stato tre volte mio padre. Ha scritto la prefazione al mio primo
romanzo, alle mie prime poesie, e ha dedicato un saggio critico al mio primo
libro di critica. Era immensamente generoso. Scrivendo la prefazione al mio
primo romanzo, citava Dante, Boccaccio, Verga e Manzoni. Troppo. La prefazione
al “Quinto Stato” era magnifica, utilissima, ma
sbagliata. Pasolini mi rimproverava di descrivere il mondo contadino come
destinato ad entrare nella borghesia, lui voleva che
lo descrivessi come eterno, immutabile, col dialetto, i piedi scalzi,
l'angelus, e le campane. Ma io sentivo che quel mondo
moriva, descriverlo come eterno voleva dire fare dell'arcadia. Il rapporto di
Pasolini verso di me mi è misterioso. Dopo la sua morte, uscì il suo romanzo
“Petrolio”, in cui racconta di aver ricevuto documenti segreti dei Servizi
Militari Italiani, che contenevano rivelazioni su alcuni attentati, tra cui la
caduta dell'aereo in cui viaggiava Enrico Mattei, fondatore dell'Eni. Questi
documenti, dice Pasolini, gli furono consegnati da “uno scrittore italiano,
veneto, piuttosto alto, elegante nel suo lungo cappotto blu, piuttosto bello,
dal cognome che finisce in –on”. Sono io? Ma io non ho
mai frequentato i Servizi Segreti, non ho mai avuto documenti sulle stragi
organizzate dallo Stato, non sono mai stato uno 007. Non vedevo Pasolini da
molti anni. E non pensavo mai a lui. Lui pensava ancora a me? E perché?
La ringrazio molto per rispondere alle mie domande.
Cordiali saluti,
Jordi Nopca
Diari
Ara
www.ferdinandocamon.it