Intervista
di Renzo Montagnoli ad Andrea Molesini, autore del
romanzo Non tutti i bastardi sono di
Vienna, edito da Sellerio
In appendice ha riportato
una Nota al testo in cui precisa che il romanzo è ispirato da alcuni
fatti realmente accaduti narrati nel Diario dell'invasione, di Maria Spada,
che, se non vado errato, è una sua prozia. In ogni caso lo sviluppo è frutto
esclusivo di sua fantasia, fatta eccezione per i nomi dei luoghi e dei
protagonisti che invece sono autentici. Si può dire quindi che ci troviamo di
fronte a un romanzo storico, per la precisione relativo al periodo
intercorrente fra la rotta di Caporetto e la battaglia del solstizio d'estate.
Ogni evento è visto dalla
parte orientale del Piave e quindi dal punto di vista degli occupati che
dovettero subire le conseguenze dell'invasione austriaca. In questo è un
elemento prezioso perché mi risulta che siano poche le opere che hanno parlato
di questa occupazione. Che cosa l'ha spinta a scrivere questo romanzo e quale è
stata la sua genesi?
Il diario della sorella
del mio nonno materno, Maria Spada, è stato determinante. Stavo progettando un
romanzo di formazione: un diciassettenne diventa “uomo” confrontandosi con il
mistero dell'eros e della morte. Quel diario mi ha suggerito uno sfondo storico
preciso, una sfida che non potevo non cogliere. Per un anno intero mi sono
dedicato alla lettura non solo di libri di storia che inquadrassero l'epoca, la
Grande Guerra sul fronte italiano, il dopo-Caporetto in particolare, ma anche i
bollettini e i dispacci dei due eserciti in lotta, la diaristica
(spesso di contadine che scrivono in dialetto), e le testimonianze dirette dei
protagonisti della ritirata prima, della resistenza e del contrattacco italiani
poi. Questo lo sfondo, poi i personaggi mi hanno sorpreso un po' per volta. I
signori: nonno Guglielmo e nonna Nancy, zia Maria, il gigantesco custode,
Renato, che si rivela essere ben più che un semplice custode, e la formidabile
Teresa, la cuoca, accompagnata dalla stolta figlia Loretta. E poi c'è la
seduttrice dalla coscia leggera, e il parroco pugnace e a suo modo patriota. Ma
l'idea principe, intorno alla quale si è coagulato il romanzo, è stata quella
di far raccontare tutto dal giovane protagonista, Paolo Spada. La prima persona
è il modo più diretto di dire le cose, quello che usiamo con gli amici che ci
chiedono “cosa hai fatto ieri”, per capirci. Ma proprio la scelta della prima
persona mi ha costretto ad alcune opzioni linguistiche non facili. Avevo
bisogno di un linguaggio rapido, scorrevole e preciso, ricco, vario, ma che non
suonasse mai letterario o artefatto. Allora decisi che Paolo doveva raccontare
la sua storia una decina di anni dopo averla effettivamente vissuta. Questo mi
ha permesso alcune necessarie semplificazioni: l'uso del “voi” anziché del
“lei” (all'inizio del Novecento si usavano tre persone, il “tu” per il tono
confidenziale, il “lei” per il formale, il “voi” invece si usava fra genitori e
figli, per fare un esempio, una sorta di tono intermedio) come si andò definendo
nel corso degli anni Venti; la modernizzazione di certi modi di dire come “il
fronte militare” che nel 1917 sarebbe stato definito “la fronte militare”, e
così ho anche potuto usare il fiume Piave al maschile, mentre nel paese di Refrontolo, fino al 1918 (almeno fino all'avvento della
canzone “Il Piave mormorava”) il fiume era chiamato “LA
Piave”.
Tutto il libro è una
meditazione – come è stato notato da Ermanno Paccagnini,
finissimo recensore del Corriere della Sera (7 novembre 2010, p.41) – sul contrapporsi
dei sentimenti individuali al senso del dovere che in una situazione
collettivamente tragica, come quella di una popolazione e una famiglia
sottoposte al giogo straniero, si fa a un tempo esplosiva e soffocante. La
situazione descritta è quella di una famiglia di signori, usa agli agi e al
comando, che all'improvviso, a partire dalla notte del 9 novembre 1917, diventa
prigioniera in casa propria, ospite di un nemico che sa essere insieme feroce e
beneducato. Così il protagonista, la voce narrante, è iniziato alla vita adulta
nel corso di quell'anno 1917/18, che fu fatale per tutta l'Europa. Diventerà un
collaboratore del S.I., il Servizio Informazioni
dell'esercito sabaudo, vedrà uccidere e ucciderà. Una iniziazione
davvero brutale.
E rispondo all'ultima
parte della sua domanda: esistono molte testimonianze sulla guerra di trincea e
anche sulla vita delle retrovie, Lussu, Salsa,
Hemingway, Weber, Soffici, Comisso, per citare i più
famosi, ma non mi risulta ci siano racconti che mettano in scena la vita
dall'altra parte del Piave, in quella porzione d'Italia occupata che resistette
come poté alla fame e alla vergogna imposte dalle truppe nemiche. Esistono
molti diari, certo, ma niente che possa essere davvero definito “letteratura”.
Ora, muoversi in un terreno inesplorato, per un narratore, può essere un
vantaggio, se non altro perché l'esplorazione di un territorio sconosciuto è
più entusiasmante, più ricca di sorprese. Così ho potuto farmi sorprendere
anch'io da certi avvenimenti che venivano “decisi” dai personaggi che via via mettevo in scena.
Il giudizio di Paccagnini è indubbiamente esatto, però, a mio avviso, il
libro non si propone solo questa complessa analisi, ma anche altro. Non è
difficile notare che, nel crogiolo della guerra, qualcosa sta cambiando e che
quel mondo che per certi aspetti e stili di vita accomunava una certa borghesia
ai nobili è prossimo a sparire. Se ne accorge il colonnello austriaco, ma lo
notano anche i membri della famiglia Spada, soprattutto il nonno, una strana figura
di conservatore con più di un pizzico di anarchia. Tutti i personaggi hanno un
ruolo ben definito, ma la figura che mi riesce più simpatica è proprio quella
di nonno Guglielmo, in cui esistono radicate convinzioni unitamente a spinte
innovative. Più di tutti lui è il testimone e attore di questo mondo che
cambia. E' d'accordo?
Sì, sono d'accordo con
lei. Il nonno è un personaggio che ispira simpatia soprattutto perché è un uomo
irrisolto: vorrebbe vivere nell'azione, mentre è un contemplatore; fustiga il
mondo con le sue sentenze, ma delle sue sentenze è anche vittima; vorrebbe
scrivere un romanzo ma produce solo fogli sparsi; è molto intelligente,
spiritoso, pieno di arguzia, ma queste sue qualità ne fanno solo, alla fin
fine, un uomo da salotto, salvo nel momento cruciale, perché lascerà la vita
con una dignità e una grazia che ne riscattano ogni limite. Insomma, non è
difficile identificarsi con un uomo che, ormai anziano, si guarda indietro e
pensa di essere stato una promessa non mantenuta, siamo tutti deboli in questa
vita, e tutti, credo, siamo destinati a non realizzare appieno i nostri sogni.
Ma nel libro i destini individuali (contraddittori) s'intrecciano tutti con la
tragedia di un mondo spazzato via dalla violenza, che fa da apripista alla volgarità
dei tempi nuovi, che avranno le masse come protagoniste. “A generali cretini
potrebbero succedere sergenti cretini” dice l'immancabile sentenza del nonno.
Così gli Spada e gli ufficiali asburgici sono nemici affratellati dal comune
destino di sconfitta e di oblio.
Fra i tanti temi trattati
c'è anche quello, importantissimo, dell'inutilità della guerra, affrontato
senza retorica e che traspare fra le righe con quel senso di desolazione che
permea il racconto e con una frase detta dal barone austriaco, prostrato
soprattutto moralmente dopo l'esito infausto dell'offensiva del giugno
1918. La ripeto di seguito perché è
molto significativa: ” “Io… io, madame… ho visto i miei soldati
venire su da quel fiume, venivano su dall'acqua, come i vostri gnocchi di
patate nel tegame, mi capite, madame? Gnocchi nell'acqua che bolle”.
Quel contrasto fra un piatto appetitoso e la cruda realtà della morte, cioè fra
la delizia di una vita in pace e di un'altra guerra non poteva essere espresso
meglio. Il suo, quindi, è un messaggio netto di avversione per la guerra,
qualunque ne siano i moventi, e la differenziazione fra l'evento bellico visto
in modo informe come un'azione collettiva e la reazione invece del singolo, non
preso dall'atroce obbligo di uccidere per non essere ucciso, è altrettanto ben
delineata nel comportamento del caporale croato che si oppone a che al ragazzo
sia dato il colpo di grazia.
E' così?
Nella guerra c'è una forza demoniaca che sfugge all'analisi e alla
comprensione, eppure senza la guerra, come dice Omero, non ci sarebbe materia
di canto. Noi raccontiamo la tragedia, la vita tranquilla non ha storia. Questa
contraddizione è terribilmente umana, ogni uomo appena un po' assennato odia la
guerra, ma senza questo mostro che tutto travolge, senza la vita rischiosa,
senza il pericolo, il sacrificio, il dolore e l'inutilità del dolore niente
avrebbe senso e noi, come esseri umani, altro non siamo se non cercatori di
senso.
Ci sono anche dolori quotidiani, altri rischi non meno pericolosi
e la guerra forse non è così più necessaria, se la si combatte ogni giorno per
difendere il posto di lavoro, per arrivare alla fine del mese, per opporsi alle
ingiustizie.
Comunque, in un romanzo come questo, con così tanti personaggi, la
figura del sacerdote, dominato da una perenne alitosi, ha un significato
preciso. Quale?
No, temo che la guerra resterà, purtroppo, la grande fonte di
canto che è sempre stata: dalla Bibbia
a Guerra e pace, dall'Iliade al Viaggio al termine della notte. La guerra è una tragedia collettiva,
di natura storica, cioè generata dalla volontà umana (anche un terremoto è
dolore collettivo, ma non è la stessa cosa). I conflitti privati, la lotta per
il posto di lavoro, ma via… al confronto del mare di
lutto che porta la guerra sono poca cosa, possono avere anche un'essenza
eroica, ma il loro significato è più decifrabile, dunque meno misterioso, e
meno intenso. E poi la guerra entra sotto la pelle di tutti, anche dei bambini,
dei vecchi, dei cani, dei muli: non è mai esistita una più grande generatrice
di storie. Senza il Male da sconfiggere niente avrebbe senso. Ma veniamo al
prete: don Lorenzo è una figura contraddittoria, come tutti gli altri
personaggi del romanzo, ha qualcosa di ridicolo, da macchietta, gli puzza il
fiato, ha delle uscite colorite poco sacerdotali, ma è abitato da uno spirito
eroico, non è un don Abbondio, è virile e pugnace, e
sa per cosa vale la pena battersi, sa che la vita e l'innocenza sono cose
importanti, e le difende come può, sa anche che la sua Chiesa è la chiesa
dell'Austria e dell'Italia, ma lui è italiano, anche se non dimentica mai di
essere un pastore. Il nonno, che odia i preti, lo rispetta perché sa che è un
uomo. La frase che meglio definisce il don la dice la voce narrante del
protagonista quando, in punto di morte, rifiuta la confessione (p.350): «“Siete diventato cinico, come vostro nonno”. Non sapeva di
farmi un complimento, o forse lo sapeva fin troppo bene.»
Mi sembra giusto arrivati
a questo punto di rivolgere una domanda che è quasi di prammatica: Andrea Molesini, insegnante
di letterature comparate all'Università di Padova, traduttore, poeta, critico
letterario, autore di libri per ragazzi e ora anche romanziere che cosa ha in
serbo per il prossimo futuro? Sta forse scrivendo un altro romanzo, magari il
seguito di questo, parlandoci delle aspirazioni deluse dei redici,
dell'avvento del fascismo, fino ad ancora un'altra guerra?
Sì, sto lavorando a un
romanzo, ma non sarà il seguito di questo, non mi piacciono “i seguiti”: ogni
libro degno di questo nome ha una sua eco nella mente, nel cuore del lettore, e
quella eco non va disturbata, confusa con un “seguito”. Quello che sto
scrivendo ora sarà un romanzo breve, secco e scattante, ma non vorrei dire di
più, non mi piace scoprire in anticipo le mie carte, anche perché il grande
dispensatore dei destini, il Caso, o Dio, faccia lei, sa essere un gran burlone
e può mettere sottosopra i nostri piani quando e come vuole.
Tanto mi aspettavo come
risposta da uno scrittore come lei e puntuale c'è stato. Sì, caro Molesini, a volte ci illudiamo di essere padroni della
nostra vita, di poterne disporre come vogliamo, ma purtroppo non è così, anche
perché il Caso, o Dio, vogliono sempre riprendere in mano la situazione.
La saluto con l'augurio
che il suo libro, insolito come qualità nel panorama letterario italiano
attuale, abbia il successo che indubbiamente merita.
Non tutti i bastardi
sono di Vienna
di Andrea Molesini
In copertina L'attesa, di Dario Treves
Sellerio Editore Palermo
www.sellerio.it
Narrativa romanzo
Collana La memoria
Pagg. 376
ISBN 88-389-2500-3
Prezzo €
14,00