I
ragazzi del ciliegio. 1918-1945 -
Fiorella Borin – Solfanelli – Pagg. 320 –
ISBN 978-88-3305-117-8 – Euro 20,00
Fiorella
Borin, laureata in psicologa e docente di storia e filosofia per
alcuni anni, è una narratrice di talento che ha al suo attivo
più di 300 novelle e romanzi storici prevalentemente
ambientati nella Venezia del sec XVI. Pluripremiata in concorsi
letterari prestigiosi, ha collaborato per anni con riviste e
periodici nazionali, è un’instancabile ricercatrice di
documenti storici e da questo suo lavoro condotto con precisione
filologica nascono anche racconti dedicati al Secondo conflitto
mondiale. Molti di questi confluiscono nella sua ultima fatica, I
ragazzi del ciliegio (ed. Solfanelli 2019, pag. 319), un romanzo
avvincente costruito su foto ritrovate, disegni, poesie, carteggi e
diari del padre redatti fra il ‘42 e il ‘45.
Per
la Borin scrivere non è difficile, ha una penna agile, una
prosa elegante, la sua formazione la porta a saper caratterizzare a
tutto tondo i personaggi che sa inventare, pur sempre nel perimetro
della verosimiglianza, nel suo personale Eden di finzione letteraria
(Basti pensare ai personaggi dei suoi racconti Le voci mute o
a quelli del romanzo Il Pellegrino Spagnolo). Difficile credo
sia stato aver a che fare - come lei stessa confessa in un’intervista
- per la prima volta con un materiale quanto mai delicato: la vita di
persone esistite davvero, di cui una è il padre. Se è
vero però, che guardare alle vite altrui è sempre
un’azione arbitraria, farle sparire nella polvere di una
cassapanca è come negarle o rinnegarle. Ed ecco allora la
necessità di ridar loro presenza ed evidenza. Ma solo il
talento di una scrittrice come la Borin poteva tradurre una messe di
ricordi familiari in un romanzo storico che ha tutte le
caratteristiche dell’affresco di un’epoca intera.
Operazione difficilissima e quanto mai complessa, dalla gestazione
lunga e travagliata per la vicinanza emotiva a uno dei protagonisti
della vicenda, il padre appunto, che può essere superata solo
con un processo di totale annullamento di se stessa e totale
identificazione con lui. La Borin credo si sia scarnificata l’anima
per farlo, ma il risultato è averlo ripartorito di nuovo,
Giorgio, questo padre che insieme agli altri ragazzi del ciliegio,
fra cui spiccano Ettore (il gigante buono che è “un
capolavoro di mutismo”, ma sa parlare il linguaggio dell’arte)
e Girolamo (ragioniere comunale col distintivo del PNF perché
“devo pur mangiare. Non ho altra scelta”) attraversa gli
anni che vanno dal ‘18 fino alla disfatta del ‘45.
I
ragazzi che all’ombra del ciliegio trascorrono i momenti più
belli della loro adolescenza già segnata dalla Grande Guerra e
dalla Spagnola, sono legati da un’amicizia che costituisce
l’ossatura del libro e sopravvivrà alla morte anche di
fronte a scelte diverse: nel portafoglio di Giorgio alla fine “il
fascista Girolamo e il partigiano Mario” si sono “parlati
e perdonati”. Accanto a chi uscirà vivo dalla guerra, ma
squassato interiormente, e a chi soccomberà, una folla di
personaggi: anche molti di loro verranno falcidiati dalle leggi
razziali, dal disastro bellico su più fronti, dalla rovinosa
campagna in Russia, da ciò che accade dopo l’armistizio
del ‘43 con la guerra civile, eppure tutti rimangono impressi
indelebilmente nella memoria con le loro microstorie autentiche. Come
l’odiosa e avida Emma che però sogna l’abito da
sposa e abbracciata alla scatola entro cui è riposto troverà
il suo riscatto; Franco, un “Sigfrido scemo” che
pontifica di politica; Ernesto “dalla testa lunga e magra come
quella di un cavallo” a cui verranno strappati i denti per
gioco crudele; il capitano Morelli col suo tremendo diario di guerra.
Né si possono dimenticare l’abruzzese Candido Mosca -
attendente di Giorgio in Russia - con le sue parole scritte gonfie di
errori e tenerezza; Giovanni da Chieti, dal terribile vissuto
familiare, o le figure delicate, tratteggiate con lirismo, della
piccola Elisa di Milano che lascia sotto le bombe tutti i sogni
futuri come la tenera Blanchette i suoi, nel lago Maggiore; di Sara
amata da Ettore, le cui parole avevano “un suono dolce, e un
chiarore d’oro azzurro”; o della Mora che aspetta e
aspetta il suo uomo per sempre e un giorno lo vede tornare “gli
scarponi lustri, gli occhi pieni di vita” ed è un sogno;
ancora, di Mariella capace di una generosità infinita pur nel
dolore accecante che soffre; delle tante donne russe infine, che
conoscono l’amore e la pietà per soldati nemici in cui
ravvisano i volti dei loro figli.
E
poi, soprattutto, il poderoso lavoro è commosso omaggio ai
90.000 soldati dell’Armir caduti e dispersi in una Russia
ghiacciata ed immensa, incubo ricorrente nelle pagine, e a quelli che
tornano portandosi accanto i fantasmi dei loro compagni morti e sono
“smagriti, esausti, sporchi, divorati dalla dissenteria e dai
pidocchi… vergogna dell’Esercito, del duce e dell’Italia
tutta… i vinti, gli straccioni, i vili che hanno avuto il
torto di non morire da eroi.”
Un
romanzo importante, quello della Borin, storicamente inappuntabile
per quell’onestà di persona libera che pur nell’evidente
sua scelta ideologica, sa che il bene e il male non sono solo da una
parte; ma soprattutto il racconto di vicende autentiche di gente
comune, non di eroi. Affresco di una collettività dunque, I
ragazzi del ciliegio raccoglie voci che si intrecciano, si
alternano e si ricompongono come note dello stesso spartito creando
una sinfonia complessa e armoniosa. E la musica deve essere davvero
molto amata dalla scrittrice, poiché torna continuamente come
refrain reale nelle pagine, all’inizio con la madre di Giorgio
al pianoforte, o per una festa di compleanno in Giudecca, poi nella
figura di Don Giuseppe che crede oltre che in Dio e nell’amore
per il prossimo nella sua bellezza, nel desiderato Ciajkoskij di un
teatro russo, nelle isbe calde, nei soldati gelati che immaginano di
suonare sul pastrano Beethoven e Chopin, nel violino di Morosini o in
quello di Vincenzo che quasi alla fine del romanzo suona una sommessa
preghiera per gli zingari massacrati di Birkenau - loro che con
musica furente spegnevano la voglia di morire degli altri.
Se
Cristo ha il torace scarnito e le braccia ridotte a moncherini di
tanti soldati nella Campagna di Russia, il silenzio di Dio è
compensato dalla bellezza della musica, dall’arte e dalla
solidarietà che sopravvivono alla violenza della guerra. È
questo il messaggio de “I ragazzi del ciliegio”:
l’umanità, quella, non muore mai. Fiorella Borin sa
rievocarla in un mondo che sembra averla persa, che si nutre di
emozioni e non più di sentimenti, sveglia cose addormentate,
regala loro pensieri e carezze, le fa rivivere. Perché “se
la guerra è la guerra e la morte la morte”, solo la
penna di uno scrittore ricco di pietas può compiere il
miracolo di illuminarle con il calore delle sue parole attinte dalle
vene.
Lucia
Vaccarella
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