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  Letteratura  »  I ragazzi del ciliegio. 1918 – 1945, di Fiorella Borin, edito da Solfanelli e recensito da Lucia Vaccarella 26/10/2019
 
I ragazzi del ciliegio. 1918-1945 - Fiorella Borin – Solfanelli – Pagg. 320 – ISBN 978-88-3305-117-8 – Euro 20,00



Fiorella Borin, laureata in psicologa e docente di storia e filosofia per alcuni anni, è una narratrice di talento che ha al suo attivo più di 300 novelle e romanzi storici prevalentemente ambientati nella Venezia del sec XVI. Pluripremiata in concorsi letterari prestigiosi, ha collaborato per anni con riviste e periodici nazionali, è un’instancabile ricercatrice di documenti storici e da questo suo lavoro condotto con precisione filologica nascono anche racconti dedicati al Secondo conflitto mondiale. Molti di questi confluiscono nella sua ultima fatica, I ragazzi del ciliegio (ed. Solfanelli 2019, pag. 319), un romanzo avvincente costruito su foto ritrovate, disegni, poesie, carteggi e diari del padre redatti fra il ‘42 e il ‘45.

Per la Borin scrivere non è difficile, ha una penna agile, una prosa elegante, la sua formazione la porta a saper caratterizzare a tutto tondo i personaggi che sa inventare, pur sempre nel perimetro della verosimiglianza, nel suo personale Eden di finzione letteraria (Basti pensare ai personaggi dei suoi racconti Le voci mute o a quelli del romanzo Il Pellegrino Spagnolo). Difficile credo sia stato aver a che fare - come lei stessa confessa in un’intervista - per la prima volta con un materiale quanto mai delicato: la vita di persone esistite davvero, di cui una è il padre. Se è vero però, che guardare alle vite altrui è sempre un’azione arbitraria, farle sparire nella polvere di una cassapanca è come negarle o rinnegarle. Ed ecco allora la necessità di ridar loro presenza ed evidenza. Ma solo il talento di una scrittrice come la Borin poteva tradurre una messe di ricordi familiari in un romanzo storico che ha tutte le caratteristiche dell’affresco di un’epoca intera. Operazione difficilissima e quanto mai complessa, dalla gestazione lunga e travagliata per la vicinanza emotiva a uno dei protagonisti della vicenda, il padre appunto, che può essere superata solo con un processo di totale annullamento di se stessa e totale identificazione con lui. La Borin credo si sia scarnificata l’anima per farlo, ma il risultato è averlo ripartorito di nuovo, Giorgio, questo padre che insieme agli altri ragazzi del ciliegio, fra cui spiccano Ettore (il gigante buono che è “un capolavoro di mutismo”, ma sa parlare il linguaggio dell’arte) e Girolamo (ragioniere comunale col distintivo del PNF perché “devo pur mangiare. Non ho altra scelta”) attraversa gli anni che vanno dal ‘18 fino alla disfatta del ‘45.

I ragazzi che all’ombra del ciliegio trascorrono i momenti più belli della loro adolescenza già segnata dalla Grande Guerra e dalla Spagnola, sono legati da un’amicizia che costituisce l’ossatura del libro e sopravvivrà alla morte anche di fronte a scelte diverse: nel portafoglio di Giorgio alla fine “il fascista Girolamo e il partigiano Mario” si sono “parlati e perdonati”. Accanto a chi uscirà vivo dalla guerra, ma squassato interiormente, e a chi soccomberà, una folla di personaggi: anche molti di loro verranno falcidiati dalle leggi razziali, dal disastro bellico su più fronti, dalla rovinosa campagna in Russia, da ciò che accade dopo l’armistizio del ‘43 con la guerra civile, eppure tutti rimangono impressi indelebilmente nella memoria con le loro microstorie autentiche. Come l’odiosa e avida Emma che però sogna l’abito da sposa e abbracciata alla scatola entro cui è riposto troverà il suo riscatto; Franco, un “Sigfrido scemo” che pontifica di politica; Ernesto “dalla testa lunga e magra come quella di un cavallo” a cui verranno strappati i denti per gioco crudele; il capitano Morelli col suo tremendo diario di guerra. Né si possono dimenticare l’abruzzese Candido Mosca - attendente di Giorgio in Russia - con le sue parole scritte gonfie di errori e tenerezza; Giovanni da Chieti, dal terribile vissuto familiare, o le figure delicate, tratteggiate con lirismo, della piccola Elisa di Milano che lascia sotto le bombe tutti i sogni futuri come la tenera Blanchette i suoi, nel lago Maggiore; di Sara amata da Ettore, le cui parole avevano “un suono dolce, e un chiarore d’oro azzurro”; o della Mora che aspetta e aspetta il suo uomo per sempre e un giorno lo vede tornare “gli scarponi lustri, gli occhi pieni di vita” ed è un sogno; ancora, di Mariella capace di una generosità infinita pur nel dolore accecante che soffre; delle tante donne russe infine, che conoscono l’amore e la pietà per soldati nemici in cui ravvisano i volti dei loro figli.

E poi, soprattutto, il poderoso lavoro è commosso omaggio ai 90.000 soldati dell’Armir caduti e dispersi in una Russia ghiacciata ed immensa, incubo ricorrente nelle pagine, e a quelli che tornano portandosi accanto i fantasmi dei loro compagni morti e sono “smagriti, esausti, sporchi, divorati dalla dissenteria e dai pidocchi… vergogna dell’Esercito, del duce e dell’Italia tutta… i vinti, gli straccioni, i vili che hanno avuto il torto di non morire da eroi.”

Un romanzo importante, quello della Borin, storicamente inappuntabile per quell’onestà di persona libera che pur nell’evidente sua scelta ideologica, sa che il bene e il male non sono solo da una parte; ma soprattutto il racconto di vicende autentiche di gente comune, non di eroi. Affresco di una collettività dunque, I ragazzi del ciliegio raccoglie voci che si intrecciano, si alternano e si ricompongono come note dello stesso spartito creando una sinfonia complessa e armoniosa. E la musica deve essere davvero molto amata dalla scrittrice, poiché torna continuamente come refrain reale nelle pagine, all’inizio con la madre di Giorgio al pianoforte, o per una festa di compleanno in Giudecca, poi nella figura di Don Giuseppe che crede oltre che in Dio e nell’amore per il prossimo nella sua bellezza, nel desiderato Ciajkoskij di un teatro russo, nelle isbe calde, nei soldati gelati che immaginano di suonare sul pastrano Beethoven e Chopin, nel violino di Morosini o in quello di Vincenzo che quasi alla fine del romanzo suona una sommessa preghiera per gli zingari massacrati di Birkenau - loro che con musica furente spegnevano la voglia di morire degli altri.

Se Cristo ha il torace scarnito e le braccia ridotte a moncherini di tanti soldati nella Campagna di Russia, il silenzio di Dio è compensato dalla bellezza della musica, dall’arte e dalla solidarietà che sopravvivono alla violenza della guerra. È questo il messaggio de “I ragazzi del ciliegio”: l’umanità, quella, non muore mai. Fiorella Borin sa rievocarla in un mondo che sembra averla persa, che si nutre di emozioni e non più di sentimenti, sveglia cose addormentate, regala loro pensieri e carezze, le fa rivivere. Perché “se la guerra è la guerra e la morte la morte”, solo la penna di uno scrittore ricco di pietas può compiere il miracolo di illuminarle con il calore delle sue parole attinte dalle vene.


Lucia Vaccarella


 
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