Dieci
giorni in manicomio – Nellie Bly –
Clandestine – Pagg. 127 – ISBN 9788865966921
– Euro 7,50
Mentre
vivo, spero.
Mi
infiltrai tra le persone incapaci e bisognose di tutela, vidi e
sperimentai personalmente il trattamento accordato alla più
inerme fascia sociale della nostra popolazione e, quando ritenni di
aver raccolto sufficienti informazioni, il mio rilascio fu
rapidamente ottenuto. Lasciai il reparto psichiatrico con la gioia di
chi, dopo un tempo che pareva infinito, può finalmente
respirare una boccata di paradiso e con il rimpianto di non poter
portare con me alcune di quelle sfortunate donne che vissero e
soffrirono al mio fianco e che, di questo sono convinta, non erano
meno sane di quanto io stessa fossi e sono. Vi è una cosa,
soprattutto, che mi lascia oltremodo perplessa: nel momento stesso in
cui fui internata, cessai di atteggiarmi a pazza e mi comportai in
modo assolutamente ordinario. E tuttavia, più parlavo e agivo
razionalmente, più ero ritenuta afflitta da follia da tutti,
ad eccezione di un medico, la cui gentilezza e cor-dialità
resterà per sempre impressa nel mio cuore.
Nel
1887, il reporter Nellie Bly pseudonimo di Elizabeth Jane Cochran, fu
incaricata di scrivere un articolo sulle condizioni di vita delle
donne ricoverate nel manicomio nell’isola Blackwell, per fare
ciò si fingerà una rifugiata afflitta da paranoia, così
da poter essere internata nel manicomio.
Mi
piacerebbe dire a quegli esperti psicologi che, successivamente,
hanno condannato il mio operato come infiltrata: “Prendete
alcune donne perfettamente sane e in salute, rinchiudetele in
una
stanza, dove saranno costrette a rimanere sedute dalle 6 del mattino
alla 8 del pomeriggio, senza mai potersi muovere, né parlare,
alimentatele con cibo scarso e avariato e costringetele a sottoporsi
a bagni gelidi e terapie estremamente dure, senza mai dar loro
notizie di ciò che accade nel resto del mondo e vedrete come,
ben presto, le condurrete alla follia. Due mesi sono sufficienti a
provocare in chiunque un vero e proprio esaurimento fisico e
mentale”.
Quello
che ci propone Nellie Bly è un piccolo resoconto dei suoi
giorni prima e dopo l’internamento, ed è sconvolgente
apprendere l’incapacità dei medici di diagnosticare se
una paziente era o non era sana di mente. Sicuramente alla fine
dell’800 bastava veramente poco perché un comportamento
“insolito” fosse etichettato come malattia mentale, ma
nel momento che le donne arrivavano al manicomio di Blackwell già
c’èra la certezza che non ne sarebbero più
uscite.
Sconvolgente è la cattiveria delle infermiere che
si divertivano sulle spalle delle pazienti, della brutalità
nelle percorse, della disumanità, ma soprattutto della
“follia” che possedeva chi doveva invece aiutare pazienti
in un momento difficile della propria vita.
Ancora oggi le
malattie mentali fanno veramente paura, perché non si
conoscono, e non si sa mai come affrontare ciò che non si
conosce.
La mente ha una sua metrica e quando questa perde i
colpi vaga per un mondo ignoto ai più, ma ciò non vuol
dire che persone che sono afflitte da tanto dolore, persone che sono
imprigionate nella loro mente non siano esseri umani e come tali non
vadano rispettate.
Un reportage quello di “Dieci giorni in
manicomio” che mi ha lacerato l’anima nel vero senso
della parola.
L’attualità di questo libro è
disastrosa, negli anni nonostante la chiusura dei manicomi con la
legge Basaglia, non c’è stato un vero e proprio
miglioramento sul trattamento delle malattie mentali, spesso i
pazienti psichiatrici sono abbandonati a se stessi e gli aiuti sono
veramente pochi. E questo aprirebbe un lungo dibattito, e a
malincuore devo asserire che ancora in riguardo si evitano delle
prese di posizione da parte della società politica.
Se
non se ne parla, se non si prendono posizioni, se non si incrementano
gli aiuto socio-econimici, come si può restituire dignità
alle persone con disturbi psichiatrici?
Quali
misteri avvolgono la follia! Ho osservato pazienti le cui labbra
paiono ermeticamente sigillate in un perpetuo silenzio: vivono,
respirano, mangiano, mantengono l’umana apparenza, ma quel
qualcosa, senza il quale il corpo può vivere, ma che in
assenza di corpo non può esistere, risultava in loro del tutto
assente. Mi sono chiesta sovente se, al di là di quelle labbra
serrate, vi fossero sogni di cui nessun altro poteva essere a
conoscenza o se solo il vuoto albergasse in quelle sventurate
creature.
Katia
Ciarrocchi
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