Il
libro dell’inquietudine – Fernando Pessoa –
Feltrinelli – Pagg. 279 – ISBN 9788807880438
- Euro 9,50
“Ehi,
della vita! Nessuno risponde?”
Per
chi volesse accostarsi a questo libro, la prima informazione utile da
possedere è che si tratta di un insieme di testi ( inteso il
testo come insieme di parole scritte aventi un messaggio e veicolate
da una struttura linguistica comprensibile perché normata)
sicuramente letterari ma non definitivi , giustapposti l’uno
all’altro non per un disegno artistico voluto dal suo autore ma
secondo criteri semplicemente tematici adottati da Jacinto do Prado
Coelho che, nel 1982, ha curato la prima edizione critica di un
centinaio di fogli manoscritti, in parte fascicolati dallo stesso
Pessoa e autografati con il titolo “Livro do Desassossego”.
Il libro però non è di Pessoa ma è attribuito al
suo eteronimo Bernardo Soares, per cui ci troviamo di fronte a un non
libro e a un non autore. La prima operazione richiesta al lettore,
investito dl ruolo di narratario dall’autore, è quello
di prendere atto dell’esistenza di Bernardo Soares, dopo di che
il lettore in quanto narratario sparisce perché l’autore
non lo contempla più e lo annulla insieme a se stesso facendo
permanere solo il lettore reale, quello che fisicamente sta con il
libro in mano a cercare di capire quale sarà la storia
narrata. Fin dalle prime pagine, superata la presentazione
dell’eteronimo, anche la storia attesa non ci sarà. Il
lettore compie un vero e proprio viaggio dentro la vita mentale di
Bernardo Soares/Pessoa abituandosi presto alla mancanza assoluta di
continuità fra un pensiero e l’altro e ciò si
realizza nonostante l’accorpamento tematico di cui abbiamo
parlato prima. Eppure lentamente il lettore è indotto a
cercare una sorta di filo conduttore e, mettendo insieme le piccole
contingenze del quotidiano, l’accenno agli spazi interni ed
esterni rappresentati, o quelli alle persone che incrociano il
nostro, si arriva a definire un quadro sommario di riferimento.
Bernardo è un contabile, vive in affitto al quarto piano di un
palazzo che si affaccia su Rua do Douradores, e vive affacciato al
mondo che quella visuale gli offre; si sposta tuttavia nel suo
quotidiano anche in altri spazi : l’ufficio e le vie di
Lisbona. Bernardo è però fondamentalmente un pensatore,
un insonne, uno scrittore, un poeta e soprattutto un incapace: non sa
vivere. Confessa dunque in questa sorta di autobiografia il niente
che ha da dire o meglio l’insieme delle impressioni che
sovraffollano il suo pensiero inchiodandolo in una consapevole e
forse voluta inazione. Bernardo, nonostante la pesantezza del suo
affermare, sa però esserci simpatico semplicemente perché
è un essere sospeso e intrappolato in quel pensiero che, mi
verrebbe da asserire volgarmente, per fortuna, attraversa
momentaneamente la mente di molti uomini; il pensiero che si perde
nella contemplazione della vita, nel suo mistero, nella lettura degli
episodi significativi dell’esistenza, nella decodifica delle
relazioni che instauriamo con noi e con gli altri. La restituzione
concentrata delle sue fantasticherie, dei suoi sogni ad occhi aperti,
di quelli nella dormiveglia di una cronica insonnia, del suo stesso
sogno che è la vita , a dirla come Quevedo, è ciò
che ce lo rende di fatto necessario e simpatico. È tutto ciò
che avremmo voluto sentire e anche no, è il coraggio di
arrancare dentro un mistero riconoscendosi miseri e
finiti.
REPRESÉNTASE
LA BREVEDAD DE LO QUE SE VIVE Y CUÁN NADA PARECE LO QUE SE
VIVIÓ:“Ah de la vida!”... “Nadie me
responde? / Aquí de los antaños que he vivido! / La
Fortuna mis tiempos ha mordido; / las Horas mi locura las esconde. /
Que sin poder saber cómo ni adónde / la salud y la edad
se hayan huido! / Falta la vida, asiste lo vivido, / y no hay
calamidad que no me ronde. / Ayer se fue; Mañana no ha
llegado; /Hoy se está yendo sin parar un punto: / soy un Fue,
y un Será, y un Es cansado. / En el hoy y mañana y
ayer, junto / pañales y mortaja, y he quedado / presentes
sucesiones de difunto.
Ehi,
della vita! Nessuno risponde?
Voglio
qui tutti gli anni che ho vissuto!
La
Fortuna il mio tempo ha già compiuto,
la
mia pazzia le Ore mi nasconde.
Ch’io
non possa saper come né dove
la
salute e l’età sono fuggite!
Manca
la vita, c’è l’aver vissuto.
Non
v’è calamità che non mi provi.
Ieri
sparì, Domani non è giunto,
l’Oggi
se ne va via senza fermarsi;
sono
un Fu, un Sarà, un È già smunto.
Nell’oggi,
ieri e domani congiungo pannolini e sudario,
son
rimasto eredità presente d’un defunto.
(Francisco
Quevedo da Sonetti amorosi e morali, trad. it. di V. Bodini, Einaudi,
Torino, 1965)
Quevedo
ma non solo, Thomas Mann con Hans Castorp: «Il singolo può
avere di mira parecchi fini, mete, speranze, previsioni, donde
attinge l’impulso ad elevate fatiche e attività; se il
suo ambiente impersonale, se l’epoca stessa, nonostante
l’operosità interiore, è in fondo priva di
speranze e prospettive, se furtivamente gli si rivela disperata,
vana, disorientata e al quesito formulato, coscientemente o no, ma
pur sempre formulato, di un ultimo significato, ultrapersonale,
assoluto, di ogni fatica e attività, oppone un vacuo silenzio,
ecco che proprio nel caso di uomini dabbene sarà quasi
inevitabile un’azione paralizzante di questo stato di cose, la
quale, passando attraverso il senso morale psichico, finisce con
l’estendersi addirittura alla parte fisica e organica
dell’individuo. Per aver voglia di svolgere un’attività
notevole che sorpassi la misura di ciò che è soltanto
imposto, senza che l’epoca sappia dare una risposta sufficiente
alla domanda “a qual fine?”, occorre o una solitudine e
intimità morale che si trova di rado ed è di natura
eroica o una ben robusta vitalità. Né questo né
quello era il caso di Castorp, sicché si dovrà pur dire
che era mediocre, sia pure in un senso molto onorevole».
Ma
i richiami letterari sono infiniti e ricchi di suggestioni che
spazierebbero per Kafka, Musil, Proust, Pirandello. Un grande libro
fra i grandi.
Siti
|