La
lingua salvata. Storia di una giovinezza - Elias
Canetti – Adelphi – Pagg. 365 – ISBN 9788845904172
- Euro 24,00
La
lingua dell’amore
Primo
volume di una monumentale autobiografia iniziata nel 1977 e
continuata con “Il frutto del fuoco”, nel 1980 e “Il
gioco degli occhi”, nel 1985. Una lettura sicuramente gradevole
che ha come sottotitolo “Storia di una giovinezza” e che,
per quanto mi riguarda, ha tenuto desta l’ attenzione per i tre
quarti mentre ha generato una certa stanchezza nella parte finale;
probabilmente perché ho trovato molto avvincenti le situazioni
narrate rispetto alla prima, seconda e terza infanzia mentre
l’avviarsi dell’autore nella pubertà è
stata appesantita dal profilo dello stesso ragazzo narrato. Il volume
inizia con i primissimi ricordi di vita, in Bulgaria, in seno a una
famiglia di ebrei sefarditi di origine spagnola; una famiglia
facoltosa, di commercianti, ben integrata ma con un’identità
linguistica precisa e ancorata alla lingua spagnola. Una coppia
genitoriale giovane e affiatata che invece parla eleggendo a veicolo
linguistico, privilegiato e intimo, il tedesco; un bambino che sente
parlare contemporaneamente spagnolo e bulgaro, comprendendoli
entrambi fino ai sei anni, e che si incuriosisce all’universo
linguistico esclusivo della mamma e del papà. Un periodo della
vita, felice, comunitario, integro, che improvvisamente si sgretola e
si sfalda a causa, prima, di dissapori interni alla grande famiglia,
in particolare per via della rottura tra il padre di Elias e il
genitore, il capofamiglia, e poi per via della morte prematura dello
stesso papà di Canetti quando ormai la famigliola è
emigrata in Inghilterra. Inizia così una vita nuova,
caratterizzata dalla condizione di orfano e di fratello maggiore che
comporterà al piccolo Elias preoccupazioni, ansie e
responsabilità inaudite. È la parte più toccante
della narrazione, non interessa un unico blocco ma si dissemina nel
resto dell’opera e della vita, lasciando un segno profondo,
quello dell’assenza e al tempo stesso del rapporto quasi
simbiotico con la madre. Segue poi il resoconto delle tappe di una
vita in viaggio; ai due anni trascorsi a Manchester ( 1911-1913) si
giustappongono gli anni di Vienna, tra il 1913 e il 1916, e per
finire quelli del “paradiso perduto”, in Svizzera, che
coprono il restante intervallo fino al 1921. Si tratta di soggiorni
lunghi ma il senso di precarietà è latente. Il periodo
inglese e quello viennese sono ricchi di aneddoti che permettono di
costruire un profilo biografico di tutto interesse; al centro sempre
la riflessione costante sull’esposizione linguistica; un
esempio fra tutti, il più evidente, è sicuramente il
barbaro apprendistato al quale la giovane vedova sottopone il figlio
per fargli apprendere la lingua tedesca, ultimo ed estremo ancoraggio
all’amato marito. Canetti, poliglotta, scriverà tutte le
sue opere in tedesco. Gli anni della crescita corrispondenti alla
scolarizzazione sono inizialmente molto interessanti, si entra dentro
l’universo privato del percorso di formazione, generosamente
anticipato dalle sollecitazioni ricevute in famiglia; emerge netto il
profilo di un alunno sui generis, un assettato di sapere che stona
perfino con il rigore educativo che pure caratterizzava l’epoca
facendolo entrare in conflitto con un universo studentesco comunque
eterogeneo e non sempre zelante. Un atteggiamento quasi superbo, il
suo, del tutto involontario che solo l’onda antisemita riesce a
fargli finalmente percepire. I ricordi legati alla Svizzera sono meno
interessanti, forse perché nel frattempo il ragazzo che è
lontano dalla madre, ha modo di crearsi una sua autonomia di pensiero
e si perde quell’aura eccezionale che aveva caratterizzato le
altre età fino a quando la mamma non irrompe prepotentemente a
indirizzarlo un’altra volta, lontano dalla favola bella della
Svizzera, imponendogli l’ennesimo trasferimento, questa volta
in Germania. Sigla Canetti: “il paradiso zurighese era finito,
finiti gli unici anni di perfetta felicità”.
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