I
portatori d’acqua – Atiq Rahimi –
Einaudi – Pagg. 192 – ISBN 9788806244040
– Euro 18,50
Macerie
della storia tra sentimenti e radici
Siamo
tutti portatori d’acqua, sia essa quella con cui si riempie il
secchio a una sorgente o la stessa linfa vitale che costituisce per
la maggior parte il nostro organismo. Da tale considerazione, in
apparenza scontata e banale, è forse possibile prendere le
mosse per recensire questo romanzo di Atiq Rahimi che catapulta il
lettore in una storia drammatica e affascinante tra Europa e Asia.
In
verità, sono due, e ben distinte, le vicende narrate che
procedono in parallelo all’indomani dell’11 marzo del
2001, data funesta che resterà marcata a fuoco negli annali
della barbarie e dell’oscurantismo più incredibili. Chi
non ricorda, infatti, l’abbattimento a suon di dinamite dei due
Buddha, giganteschi e millenari, scolpiti nella roccia della valle di
Bamiyan, in Afghanistan, a opera del regime talebano all’epoca
al potere?
A
Kabul, ancor prima dell’aurora, Yussef inizia quella giornata
come una delle tante della propria grama esistenza di fatiche. Curvo
e ingrigito anzitempo, il pover’uomo fa il portatore d’acqua,
mestiere che ha ereditato dal padre, al pari di un bastone di giunco
e un otre di pelle di capro. Da quando è esplosa la siccità,
e non nevica più nemmeno sulle montagne dell’Hindu Kush,
il suo lavoro è stato rivalutato poiché solo lui,
assurto a una sorta di ruolo di “salvatore degli assetati”,
conosce la via sotterranea di un’antica sorgente avvolta nella
leggenda e può così portare l’acqua alla moschea
e alle famiglie del quartiere; persino il mullah, che impartisce
ordini e sguinzaglia i soldati alla ricerca di fedeli da trascinare a
forza alla preghiera dell’alba, dipende da lui per gli
approvvigionamenti idrici. Della famiglia non gli resta più
nessuno, se non la giovane e silenziosa cognata, Shirin, che suo
fratello maggiore ha lasciato a casa partendo tempo addietro alla
volta dell’Iran e sulla quale ora il portatore d’acqua ha
in teoria diritto di vita e di morte. A una infinità di
chilometri di distanza, a Parigi, un altro afghano, Tamim, si
appresta ad alzarsi con il proposito di abbandonare moglie e figlia
per trasferirsi ad Amsterdam, città dove si reca abitualmente
per lavoro e ha una relazione extraconiugale con una misteriosa
ragazza, Nuria, accanto alla quale desidera ora vivere. Da lunghi
anni è soltanto “un afghano impagliato” che
nell’esilio ha sepolto ricordi e nostalgia, pure il suo stesso
nome, sostituito dal più occidentale Tom, per travestirsi da
cittadino francese che, tuttavia, continua sempre a smarrirsi fra le
due culture; la lingua persiana si ostina a dominarne pensieri ed
emozioni, sebbene questi vengano poi espressi in quella francese. Una
strana sensazione di déjà-vu, inoltre, scandisce la sua
vita senza gettarlo però nell’inquietudine, facendolo
anzi sentire padrone del tempo e conscio come di una vaga profezia
dal sapore del sogno, mentre la propria perenne condizione di
esiliato affiora non meno consapevole.
“[…]
Scrivendo in persiano si rende però conto che le sue parole
francesi, prese in prestito fresche fresche dai dizionari, non hanno
mai vissuto dentro di lui. Sono estranee ai suoi pensieri, ai suoi
sentimenti… in esilio nella sua anima afghana, che lui
vorrebbe tanto travestire da intelletto francese. Invano.
[…]”
Attraverso
una prosa molto bella e di grande profondità, Rahimi, in asilo
politico in Francia ben dal 1984, ci parla di sentimenti e radici,
porgendo al lettore pagine intense in cui il suo Afghanistan emerge
in tutta la miseria (non solo materiale) della propria storia
recente, ma anche come luogo di memorie, e in un certo qual modo pure
di rimpianti, smarrito in una lontananza ormai satura di macerie
dell’anima insanabili e ridotte alla stregua di quelle lasciate
dai maestosi Buddha di Bamiyan. L’intreccio delle vicende dei
due protagonisti, nell’alternanza ben studiata dei capitoli,
offre una lettura interessante da cui non si fa fatica a lasciarsi
conquistare; in particolare, della storia di Tamim/Tom colpisce
questa continua fuga dalle origini per trovare rifugio in menzogne,
le proprie e altrui, alle quali è preferibile credere pur di
non affrontare la fragilità del dubbio e d’improvviso
viene naturale domandarsi se in questo personaggio tormentato non si
debba vedere, magari limitatamente ad alcuni aspetti, un alter ego
dello stesso autore, considerato il suo status di naturalizzato
francese. Di certo, come portatore d’acqua, l’esiliato in
Francia non può essere d’aiuto né a se stesso né
agli altri poiché la sorgente della propria linfa vitale si è
prosciugata, come infine qualcuno gli sentenzia, mentre in patria
Yussef, abbandonatosi alla stanchezza e all’ossessione amorosa,
rifiuta con un moto di ribellione di riempire ancora il vecchio otre.
Sebbene sfuggenti e quasi invisibili fin dall’inizio del
romanzo, entrambi i personaggi femminili di Shirin e Nuria risultano
molto ben riusciti, così come anche quello del venditore indù
Lala Bahari, suggellando una dimensione doppia, irreale, onirica che
nella parte conclusiva disorienterà il lettore fino alle tre
scarne notizie di cronaca riportate in chiusura.
Una
bella novità editoriale, già pubblicata Oltralpe lo
scorso anno, forse priva negli ultimi capitoli dello stesso incanto
che caratterizza i primi, ma un’opera comunque più che
meritevole di lettura che, oltretutto, ha il merito di riportare
l’attenzione occidentale sul dramma, quello afghano, spesso
dimenticato e, vista la forte instabilità dell’area, in
verità mai concluso.
Laura
Vargiu
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