L’archivio
del diavolo – Pupi Avati – Solferino –
narrativa – Pagg. 272 – ISBN 9788828203605
– Euro 16,00
“L’archivio
del diavolo” di Pupi Avati, pubblicato da “Solferino
Editore”, è di certo un libro strano, inquietante; per
certi aspetti spiazzante per il lettore attento che dello scrittore -
regista ha letto romanzi come “La grande invenzione” o
“Il padre di Giovanna”. Ma, inoltrandosi in una storia
senz’altro sconvolgente e coinvolgente, riscontra l’ironia
sottile e insieme la profonda umanità che sono caratteristiche
peculiari del suo stile; più stringenti però, più
manifeste, perché il trascorrere del tempo lo porta a una più
vasta maturità che presenta risvolti sempre nuovi in un
temperamento così sensibile ed eclettico.
Il
personaggio centrale della storia intorno a cui ruotano tutti gli
altri, è don Stefano Nascetti, veneto, il quale da ragazzo
subisce un trauma tremendo che segnerà per sempre il corso
della sua vita e lo porterà a cercare rifugio nella Chiesa
divenendo prete.
Ma
la sorte continua ad accanirsi contro di lui. E’ depositario,
in confessione, di un’esperienza anch’essa terribile di
una donna che gli si aggrappa in cerca di aiuto e finisce per
perseguitarlo col ricatto di suicidarsi. Da qui il giallo del
suicidio (o omicidio) nel quale don Stefano per caso è
coinvolto come testimone. Egli allora si confida col suo padre
spirituale, e quindi col patriarca di Venezia, temendo di venire
tirato in causa, addirittura come probabile responsabile della morte
della donna. Così viene trasferito in un paese sperduto del
Veneto, Lio Piccolo, dove c’è una parrocchia chiusa a
causa di un episodio misterioso e tragico. Qui incontra Silvana, una
bella ragazza, e tra i due si intreccia un’attrazione fatale,
propiziata anche da una scoperta orrenda che entrambi hanno portato
alla luce proprio nella cripta della chiesa. Lo scandalo è
clamoroso e don Stefano non può sottrarsi perché
strumentalizzato dal suo aguzzino, il questore di Venezia Carlo
Saintjust, un essere abietto, il quale lo ricatta.
Il
racconto, fino all’ ulteriore tragedia finale, si snoda con
colpi di scena continui, tracciati dall’Autore con una lucidità
che non dà tregua, con uno stile di scrittura strepitoso che
spinge il lettore a divorare le pagine per la forte esigenza di
dipanare un mistero così fitto. A tutto ciò bisogna
aggiungere che fin dalla prima pagina è come se ci sia un
susseguirsi di flash quasi cinematografici che illuminano la scena e
rendono ancora più avvincente la trama. E chi, meglio di
Avati, poteva creare un’atmosfera simile?
Bisogna
ancora aggiungere che si riscontrano nel romanzo piccole parti
oscure, zone volutamente in ombra che creano un’ulteriore
tensione e interesse e che rimandano a un “altrove” che
incombe sull’esistenza degli uomini. E la presenza della morte
pervade il libro e minaccia senza tregua. Ma è un sentimento,
questo, che non ha niente di torbido, di truce, ma è solo un
qualcosa di ineluttabile, per cui bisogna rassegnarsi, accettare.
Scrive
Avati, a proposito del ritrovamento macabro del corpo dello scrittore
Gogol’ ( una storia questa parallela alle altre):
“Le
sole cose dei defunti destinate a sopravvivere sono alcuni loro
pensieri. Pensieri così intensi e ben delineati da essersi
affrancati dalla loro morte per andare ad aggiungersi a quel grande
giacimento delle cose immaginate che si trova in un luogo remoto che
non ha nome.
Nella
vita la maggior parte di noi ha avuto accesso a quel bacino di
pensieri altrui.
Accesso
che avviene nei momenti di massimo sfinimento, dovuto a un grande
dolore, all’infierire di una malattia o anche più
comunemente a quella resa che prelude l’imporsi del sonno.
Raggiungendo il margine di quell’immenso lago colmo di volti,
di luoghi, di suoni misteriosi si ha la sensazione di avere avuto
accesso all’ignoto.
Gogol’
ogni sera della sua breve vita fu raggiunto da quelle immagini
enigmatiche. Lui sapeva come fare propri i pensieri dei morti”.
Intuizione
straordinaria, geniale. Mi sembra che in questo piccolo passo stia la
chiave del racconto di Pupi Avati, che diviene struggente senza darlo
troppo a vedere, scavando nei meandri della nostra vita proiettata
verso il nulla, nel quale l’uomo tuttavia non si “annulla”
ma di cui piuttosto rimane la sua essenza immortale, la sua bellezza
e grandezza. Finalmente non effimere.
Aurelio
Caliri
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