La
rosa rosa –
Elia
Belculfinè – RP Libri – ISBN 9788885781429
-Euro 10,00
La
rosa è materia privilegiata del canto dei poeti per la sua
particolare bellezza, il morbido profumo, la forma dei petali
sovrapposti che agiscono in funzione della trasformazione lenta e
delicata dal bocciolo alla rosa matura, aperta allo sguardo di chi la
ama e in qualche modo anche conturbante.
E
poi ci sono i molti colori, compresi quelli artificialmente prodotti,
che esprimono significati particolari, tutti riferiti a sentimenti di
amore e di amicizia.
È
forse per tutte queste qualità, ma anche per la simbologia di
cui è stata investita, che la rosa è diventata un
oggetto poetico tanto altamente considerato.
Simbologia
chiaramente sottolineata da Dan Brown nel suo Codice da Vinci, in
alternativa alla mela del mito del paradiso terrestre o alla mela
d'oro del mito del giardino delle Esperidi da cui tante conseguenze
sono scaturite, secondo l'ispirazione di Omero trasposta nell'Iliade.
Un
poeta che di recente ha preso a simbolo del suo canto una rosa, e
nello specifico una rosa rosa, è Elia Belculfinè,
con la sua ultima silloge, edita da Rp.libri nel dicembre 2020, dal
suggestivo titolo "La rosa rosa".
In
molte poesie del libro la rosa ha parte in causa in vari modi e
contesti.
Il
colore rosa sta a ricordare, in generale, un sentimento di affetto
che si declina in amicizia, amore puro, innocente, o anche
ammirazione e con l'aggiunta di un apprezzamento della raffinatezza
ed eleganza attribuite alla persona alla quale le rose rosa sono
dedicate.
Non
so se consapevolmente e in quale misura il poeta Elia abbia scelto
questa specifica rosa per voler significare i sentimenti sopra
accennati, o almeno alcuni di essi; basti tuttavia essere certi che
sia riuscito a trasferire, nel suo modo peculiare e originale
di poetare, questi sentimenti in diverse poesie della silloge.
Ne
darà conferma una lettura attenta e partecipe, che sia in
grado di andare oltre la superficie delle parole e dei versi e di
estrarne il senso profondo che il poeta ha voluto comunicare.
La
silloge comprende quattro sezioni, la seconda delle quali suddivisa a
sua volta in due parti.
Nella
prima sezione, Operando nel fuoco, il poeta sembra mettere in
scena un paradigma elementare (elementare perché ancestrale!)
dove il fuoco emerge, in ultima analisi, nelle sue connotazioni
purificatrici, non senza essergli debitori della sofferenza prodotta
dalle bruciature per aver osato avvicinarglisi troppo fin quasi a
toccarlo.
Il
fuoco a cui Elia allude è il fuoco vivo che tormenta il poeta
producendo in lui gli spasmi del creare, del fare artistico,
dell'essere investito della necessità interiore di scrivere
per riuscire a venire fuori, anche se solo momentaneamente, dal
dolore, dalla sofferenza, vissuti come DNA dell'anima, cioè
come qualcosa che è intrinsecamente connaturato all'essere
poeta.
È
questo un atteggiamento tipico del poeta Elia che, anche in altre
poesie edite o inedite, a cominciare dalle sue prime poesie, non
manca occasione per sottolineare quanto "il poeta" debba
soffrire (perfino le sue stimmate...) prima di potersi considerare
tale.
Ritengo
sia molto pregevole il fatto che ancora lo ribadisca, anche se in
altri modi, forse più "scottanti" perché più
consapevoli, in quanto si evidenzia un dato importante: il poeta più
maturo non smentisce affatto le sue prime esperienze poetiche, anzi
sempre più le rafforza rielaborandole.
A
un attento e partecipe lettore, che abbia un minimo di familiarità
con il lessico poetico di Elia, non può sfuggire il senso di
questo ritornare sul tema del lavoro "sofferto" del poeta.
Era già molto chiaro al giovane Elia, ed egli sa che mai potrà
liberarsi di questo tormento creativo.
Scrivendone
sembra volerlo alleviare.
Ma
le sue parole toccano il culmine, quando scrive, ad esempio, in
chiusura della sezione che stiamo analizzando: "Uomo scorticato
dai graffi dei tuoi artigli / (Scrivi, ti perdi, o sei paziente,
simbiosi e fiamma) / Che più di tutti hai patito il solfeggio
della carne".
In
questa sezione le poesie si servono dei "correlativi oggettivi"
(di eliotiana memoria) che all'apparenza mettono insieme immagini
lontane, ma tutte sono finalizzate a rendere l'atmosfera di accanita
e instancabile ricerca del poeta, che tenta di affinare le parole
rendendole taglienti, urticanti, in linea con le fiamme del fuoco
sacro..!
Le
due parti della seconda sezione, Le allegrie del vino, hanno
rispettivamente il sottotitolo I passati e
I passanti.
Nella
prima, cinque poesie dense di calore, sono dedicate a persone che
sono passate per l'esistenza e con le quali il poeta
intrattiene un dialogo che forse non era mai venuto meno, neanche
dopo la loro scomparsa, e che qui tende a fissare il rapporto
di reciproca benevolenza, ricordando (di ognuna) dei tratti
caratteristici riferiti al loro modo di essere o di fare.
I
versi sono incalzanti, come se il poeta attendesse da ogni
destinatario dei suoi versi una risposta, un messaggio.
Nella
mia immaginazione, è come se il poeta volesse prendere forza
dalla loro morte, ed è esemplare il fatto che "Al limite
di fiamma, non vi è fuoco che intacchi/ il cuore dei poeti",
e anche questo: che "I morti non muoiono mai, sempredesti filari
e vortici", e anche questo: "Dove vanno i morti, con gerle
/ di fuochi sulla collina?" [...] "Accolgono i poeti..."
E
come per i morti il poeta prega "l'amore gentile che si fa la
pietra col vento" così si può intuire il suo
desiderio di essere ad essi accomunato nel suo destino: che il fuoco
non intacchi il suo cuore, che il poeta non muoia mai e che sia a sua
volta amato.
Anche
in queste poesie le parole fanno le immagini e le immagini rafforzano
le parole e creano atmosfere alle quali non si resta affatto
indifferenti, perché coinvolgono, chiamano in causa anche il
lettore.
Nella
seconda parte, ancora cinque poesie, questa volta dedicate ai
passanti. Ma chi sono i passanti? Sono vaghe figure
metaforiche che, attraverso passaggi inaspettati e accostamenti
audaci di parole, simboleggiano ancora la Poesia: "Maestra che
cuce le vele per i pirati" [...] "Ma ciò in cui non
vuole / infilare l'ago è la sua lingua lacerata / dall'infamia
del suo canto, / che in realtà è un cicaleccio nella
grondaia" - quest'ultimo verso a voler intendere
l'insoddisfazione del poeta, come se l'esito del suo affannoso
cercare fosse un semplice "cicaleccio".. - e così di
seguito, nelle altre poesie, dei versi rivelatori: lo "Sgranaossi",
gli "ofidi colloquiali", "Tu giungi alla riva della
coscienza [...] dove i poeti guardano a oriente, coi battiti nelle
sillabe..", "Ermete sul trono / che canta ai poeti la sua
tristezza".
Il
poeta è inchiodato nella sua funzione e la esplica prendendo a
prestito dalla vita quelle visioni che circolarmente lo riportano al
suo mondo, alla sua ispirazione creativa, al suo meticoloso lavoro
nel quale, in definitiva, non è ancora arrivato se non quasi
al punto di partenza.
La
sezione che porta lo stesso titolo del libro, La rosa rosa, si
articola in poesie in cui le rose fanno da sfondo all'azione del
poeta, alle sue riflessioni sul destino dei morti, sulla loro vita
notturna, sul loro rapporto con i loro morti e sull'essere morti,
talvolta, anche dei vivi, o sul credere che "l'amore possa
vincere sulla morte / eternamente", o sul chiedersi se non ci
sarà fine per i tormenti dei poeti, ("il peso del verso,
con la stessa zavorra delle ombre"), per finire con "Un
solo pulsante teorema: la fiamma cantare, / il drappo spregiudicato
del tuo dramma / nella singola battuta" [...] "Nulla resta,
che nulla ci ostacola / agli eterni palpiti dell'usignolo" (qui,
un velato omaggio all'usignolo di Keats?). E ancora: "Rifiuta la
luce, sovente, la stella dei poeti".
E
nell'ultima poesia Elia codifica la dannazione dei poeti e il "temere
per il seggio della mia eternità. Sono / o non sono
nella schiera dei poeti?" - esponendosi in prima persona.
Ecco
fin dove può giungere il tormento! A intaccare continuamente
l'identità stessa del poeta.
La
silloge si chiude con un bellissimo omaggio a una poetessa di grande
talento creativo ed espressivo, con la quale il poeta Elia condivide
un sentire che va oltre ogni umana troppo
umana comprensione. Entrambi si pongono, infatti, a un
livello poetico che è di pochi eletti.
Cristina
Bove è la fortunata destinataria delle ultime poesie
della sezione I registri di Marcel. (Elia = Marcel
- in altra dimensione…!)
La
prima delle poesie a lei dedicate è una bellissima
dichiarazione d'amore, tanto forte e solido è il legame non
solo poetico ma anche umano fra i due poeti, come da figlio a madre.
La
seconda, un formidabile manifesto poetico, artisticamente perfetto,
(già da me analizzato in altra sede) che insiste sulla
necessità della ricerca continua del poeta. Scritta molti anni
fa, denota l’estrema chiarezza di idee in proposito, già
nel giovane poeta..
Tra
le restanti poesie vorrei segnalare in particolare la penultima, "Le
tue parole alle mie mani.." nella quale Elia si rivolge a
Cristina elogiando le sue parole perché gli "aprono
strade di canzoni" e la interpella in modo diretto
identificandola come "Anima, ginepro di partitura: musica /
sorgiva alle tue dita, maestra...
Ecco,
il riconoscimento a Cristina non è solo di essere vera
poetessa, ma di più... maestra!
Lo
scambio fra poeti è senza dubbio fonte di arricchimento
reciproco, ma qui Elia si fa un po' da parte per lasciare più
spazio alla sua amica.
Si
percepisce un atteggiamento di umiltà di fronte a una poetessa
la cui esperienza creativa poliedrica può lasciare a volte
interdetti per la semplicità con cui esprime concetti
profondi, avvalendosi non solo dei propri vissuti ma anche delle sue
ampie conoscenze in molti campi del sapere.
Ma,
giunti al termine della lettura de' La rosa rosa, non si può
che essere certi che Elia non è da meno, e che quindi in
questa ultima sezione del libro vi è un dialogo fra "grandi
poeti".
La
consapevolezza che il nostro ancor giovane Elia dimostra riguardo al
suo status di poeta e alle difficoltà che questo lavoro
comporta è evidenziata in molti modi, con immagini e metafore
molto incisive.
Sembra
quasi che egli risieda su un sottile crinale delle parole,
perennemente in precario equilibrio e debba trovare il modo di non
precipitare. E nei continui e necessari assestamenti sia costretto a
correre sempre il rischio, perché sa che ne vale la pena.
Pertanto le sue azioni sentono vivamente la fatica, ed è solo
quando il canto lo sostiene che riesce a trovare un po' di sollievo
dalla sua sofferenza del vivere in quelle condizioni di fragilità
e dalla sua sofferta solitudine. È come essere costantemente
in prova, e a ogni prova successiva si alzi il livello ed è
come ricominciare.
Ma
il poeta qui prende a prestito dalle rose la bellezza, la
raffinatezza e l'eleganza, anche se connotate da effimera fragilità,
e tutte queste qualità trasferisce nel suo stile, offrendo a
chi legge una sorta di magia, e se stesso come uno dei sortileghi cui
fa cenno, perché l'alchimia delle sue parole è un
dato di fatto che si manifesta come "invenzione del proprio
linguaggio poetico".
Nella
lucida sintesi introduttiva di Antonio Bux questo linguaggio viene
inteso come musica per "una litania senza fine e preternaturale"
dove le parole "anche chiariscono quanto sia dolce sentirsi
condannati, e forse anche folli, nel destino di diventare cenere"...
Come
le rose, e tuttavia con la certezza di essere stati portatori di
amore nel senso bidirezionale di dare e ricevere: il poeta ama
le cose che canta ed è amato per il suo canto.
Dalla
sezione Operando nel fuoco
Recrudescenza,
nella luna, del tuo male.
Alta
sul pioppeto umilia,
gettandosi
sulle rotaie, un usignolo dentro i versi.
L’eternità
ha il furioso dulcamaro delle olanzapine,
col
tuo segreto sfigurato, sorella…
Il
giorno è d’autunno, un secolo fa.
Mai
vedesti ridere tua madre.
Il
suicidio delicato del rabdomante -
Leggervi
dolore è un’oscenità comune.
Isolarti
al fondo, fra le stelle d’acquitrino.
I
poeti sono aria. Non versi? Sei tu a dirlo…
Strappato
all’orologio l’orpello della meta.
Corollario,
cerca il piatto d’ombre, il sangue col rame.
Sia,
fitto di agrumeti, Città Radiante, il sole.
Concrezioni
di labbra.
Rime
nella notte, mai baciate.
Dalla
sezione Le allegrie del vino
La
maestra è una sarta magistrale.
Cuce
le vele per i pirati.
E
i vestiti alle bambole del vicinato
Coi
panni da lavoro del marito
a
cui non imbastisce un abito o intavola il piatto.
Quando
ha finito si beve un vermut
tra
amiche. E se ne va al cinema
con
le sue miserie.
Ma
ciò in cui non vuole
infilare
l’ago è la sua lingua lacerata
dall’infamia
del suo canto,
che
in realtà è un cicaleccio nella grondaia.
Dalla
sezione La rosa rosa
Smagrita,
viva. Ti perdi nelle luci,
ulivo,
come sfregiato pianto.
Si
agitano i poeti, hanno croci,
sì.
I poeti della Pasqua, nel torpore di voci
con
rose di sutura sulla bocca. Nella calura d’amianto…
_Rosa
rosae_
Rose
rosa. Sulle spoglie della notte, i poeti
affondano
nella pietraia fino ai denti.
Ma
raccolgono il vino cercatore. Le ulne
al
viso, si dannano: l’amore canta lemme lemme
le
idiopatie latenti – filigrana scarna – alle culle
affannando.
Nessuna fine i loro tormenti? Cara M,
il
peso del verso, con la stessa zavorra delle ombre.
Dalla
sezione I registri di Marcel
Se
non confidassi in te, Signore,
e
nel desiderio che tu sia al di sopra
di
ogni poeta, il mio canto sarebbe
una
nota fissa. Nella carne aperta della tua voce
si
ravviva il suono degli uomini.
Dolce
creatura, quale musa domani
ci
tremerà nel seno! Ma un canto
di
solo delirio inaridisce presto negli occhi
il
rinforzo di voce alla tua sete.
Se
il verso è un campo da arare,
se
ogni sillaba è semenza faticosa, credi…
Vedrai
spuntare in ogni sguardo
il
cereale smagliante della tua parola.
(13
febbraio 2022)
Maria
Carmen Lama
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