Il
birraio di Preston – Andrea Camilleri –
Sellerio – Pagg. 256 – ISBN 9788838910982
– Euro 10,00
Tra
giallo e storia: un’umanità dannata ritratta in chiave
di farsa
In
copertina una serie di personaggi paludati chiusi in una seria
compostezza e nell’arrogante consapevolezza del loro ruolo
sociale da gestire e difendere: un dipinto che ben si presta a farsi
icona del romanzo di Andrea Camilleri Il
birraio di Preston,
al cui interno si muove una galleria analoga di figure tese a
ribadire la propria porzione di potere e ritratte dall’autore
con penna finissima, ma corrosiva fino alla caricatura e alla farsa.
Un’umanità
dannata, sia che risulti oppressore che vittima, e nella quale si
agitano sentimenti e passioni estreme: una rappresentazione esemplare
non solo della Sicilia di fine ottocento sotto il (mal)governo
piemontese, ma anche paradigmatica di un’intera società.
Così, se è immediato il richiamo a nomi come Federico
De Roberto e Leonardo Sciascia e a tutta l’area degli scrittori
legati alla non risolta questione meridionale, il fondo amaro della
vicenda va oltre e pone interrogativi sul senso ultimo delle parole
come ‘giustizia’ e ‘verità’ e sul loro
possibile attuarsi, allineando la tematica emergente dal libro a
quella di Luigi Pirandello e di altri grandi, siciliani e non.
Nel
giallo di Camilleri (ma quest’opera si candida piuttosto per il
genere “romanzo storico”), il colpevole non solo non si
scopre, ma non viene punito, almeno dalla legge. E quei pochi che si
prefiggono un comportamento onesto o teso a far luce sul carosello di
eventi che ruotano intorno alla sciagurata inaugurazione del teatro
di Vogata, sono anch’essi vittime di una violenza intrinseca e
ineluttabile, di un ‘gioco delle parti’ che non permette
nessun smascheramento, nessuna soluzione consolatoria: il lettore
rimane avvinto all’intreccio sapiente, ma non liberato da
nessun “lieto fine con arresto”.
Il
disordine morale si riflette e si esprime anche attraverso la
struttura narrativa, che costringe il lettore, come in una caccia al
tesoro, a continui collegamenti avanti e indietro nella ‘fabula’,
tra personaggi e vicende a cui Camilleri nega una disposizione
rigorosa cronologicamente, quasi a ribadirne l’interna assenza
di logica e di valori: cosi che lo spaesamento narrativo –
peraltro talmente ben congegnato che permette lo stesso di seguire
‘l’intreccio’ – è sintomatico dello
smarrimento etico e sociale.
Ma
ciò che più avvince è l’uso di una lingua
poliforme, multidialettale: fiorentino, romano e lombardo entro
un’esplosione di termini siciliani, anche grevi, che si
incastonano nella struttura linguistica italiana arricchendola di
espressività e realismo descrittivo, di una tale corposità
e ironia che spesso strappa il sorriso e contagia il lettore facendo
“pinsare” anche lui nella strana lingua vigatese.
Un
libro dunque complesso, ricco di citazioni letterarie – si veda
l’incipit dei vari capitoli – e sorretta da un narratore
onnisciente che però nulla concede di sè al suo
pubblico, se non l’indiretta testimonianza di una mente lucida
e amaramente ironica, di un amore profondo per la sua terra e per
quella ‘zona d’ombra dell’animo umano ( dove bianco
e “niviro” si confondono), che solo la vera letteratura
riesce a far emergere e ritrarre.
Patrizia
Fazzi
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