Il
miele e l’amarezza – Tahar Ben Jelloun –
La nave di Teseo – Pagg. 224 – ISBN 9788834609842
– Euro 18,00
Più
amarezza che miele
Sullo
sfondo della Tangeri degli ultimi decenni si svolge la vicenda al
centro del nuovo romanzo di Tahar Ben Jelloun pubblicato in Italia,
lo scorso aprile, da La nave di Teseo all’interno della collana
“Oceani” e presentato di recente all’ultima
edizione del Salone Internazionale del Libro di Torino. Il famoso
scrittore maghrebino ritorna nel nostro paese con una dramma
familiare che, in verità, finisce per inserirsi in un altro,
ormai incancrenito, di lunga data, raccontando al tempo stesso uno
spaccato della società del Marocco, sempre ostaggio delle
proprie contraddizioni più laceranti.
È
straordinariamente abile Ben Jelloun a scandagliare gli angoli
reconditi dell’anima della propria terra che lui, nativo di
Fès, lasciò una cinquantina d’anni fa per
prendere stabile dimora in Francia da dove, tuttavia, non ha mai
rinunciato a gettare il suo sguardo attento sull’altra sponda
del Mediterraneo. Ancora una volta Tangeri, città cosmopolita
da cui sognano di partire i giovani, affascinati dalle luci d’Europa
al di là dello Stretto, accoglie una storia che viene narrata
attraverso più voci. In quelle alterne dei coniugi Mourad e
Malika, principali protagonisti, domina l’infinita amarezza di
una esistenza precipitata giorno dopo giorno nel baratro
irreversibile dell’infelicità domestica; a esse si
aggiungono le voci dei tre figli, soprattutto quella di Samia,
adolescente che ama rifugiarsi nei libri e nella poesia e che sul
principio degli anni Duemila subisce un abuso sessuale da parte di un
insospettabile e rispettato editore che adesca giovani vittime con la
promessa di pubblicazione sulla sua rivista letteraria. La
“tragedia”, come viene ripetutamente chiamata, si abbatte
imprevista sui genitori che finiscono per seppellirsi, come in una
sorta di tomba precoce, nel buio seminterrato della loro casa
“costruita quando tutto andava bene”. Il dolore per
quanto accaduto, l’astio reciproco e l’amaro rimpianto
per i tempi in cui l’amore tra loro era forse esistito (nei
limite in cui questo possa nascere nei matrimoni imposti dagli usi
locali) li accompagnano fino agli anni della vecchiaia, quando nella
loro solitudine e nello spazio angusto del seminterrato fa la sua
comparsa un giovane immigrato mauritano la cui voce si aggiunge alle
precedenti in un intreccio narrativo ben riuscito dalla prosa intensa
e coinvolgente.
“Il
miele e l’amarezza” è indiscutibilmente un romanzo
di denuncia attraverso il quale Ben Jelloun punta il dito non
soltanto sul crimine dello stupro, in particolare ai danni di
minorenni, ma anche sul quel misto terribile di rassegnata passività,
ipocrisia e intima vergogna con cui esso viene vissuto dalla società
marocchina in generale che preferisce far finta di non vedere, non
parlarne e aggrapparsi ostinatamente a un senso dell’onore che,
a tali condizioni, risulta già disonorato in partenza; in
tutto questo schifo, inoltre, attecchiscono bene gli abusi da parte
di chi, come i sauditi, arriva con borse piene di soldi e pensa di
sfruttare l’altrui miseria, comprando a poco prezzo donne,
uomini e, purtroppo, pure bambini.
“[…]
La gente parla, ma nessuno fa nulla contro questo sistema di
prostituzione che non si dichiara come tale […]”.
La
denuncia dell’autore, come già in tanti suoi lavori,
tocca senza mezzi termini anche altri aspetti del paese nordafricano:
la corruzione, ben radicata e diffusa a livello capillare, in primis
nell’ambito della pubblica amministrazione, e ormai considerata
normale pratica poiché il cosiddetto “bakhshish”
consente di rimpolpare modesti stipendi e garantirsi così una
maggiore disponibilità economica (nella trama, Mourad,
funzionario presso un ministero, viene costretto dalla moglie e
dall’ambiente di lavoro a venir meno ai suoi principi e a
piegarsi alla logica perversa delle bustarelle); l’immigrazione
degli africani subsahariani, in transito verso la penisola iberica, e
il razzismo da parte dei marocchini, i quali in molti casi, a quanto
pare, si sentono meno africani degli altri; una sorta di
irrigidimento dell’Islam, culminante da tempo nella costruzione
di moschee e in un sempre maggior numero di donne velate negli spazi
pubblici, mentre la scuola musulmana di diritto vigente in Marocco e
nel Maghreb più in generale – quella malikita – è
sempre stata tra le meno rigide in assoluto per quanto riguarda
l’interpretazione dottrinale.
“[…]
Un paese dove si costruiscono più moschee che scuole o
ospedali è un paese finito. Non ne uscirà niente di
buono. Possiamo pregare a casa, possiamo anche pregare dentro di noi,
non abbiamo bisogno di una moschea. Mia madre, che era malata, ha
pregato seduta per gli ultimi dieci anni della sua vita. Era molto
religiosa. Diceva le sue preghiere in silenzio e non disturbava
nessuno. Al giorno d’oggi, quelli che credono vogliono farlo
sapere a tutti. Che orrore! Che arroganza […]”
Attraverso
le parole di uno dei suoi protagonisti (che a tratti dà quasi
l’impressione di essere il suo alter ego), Ben Jelloun esprime
considerazioni del tutto condivisibili. Il suo è un linguaggio
schietto su più fronti, sesso incluso, scevro di inutili
edulcorazioni di sorta, probabilmente esecrabile in patria secondo
certe ottiche ipocrite e bigotte anche se i suoi testi non vengono
banditi dalle librerie del regno, ed è proprio per questo
chiamare le cose con il loro nome che amo in modo particolare la sua
scrittura; inoltre, ogni volta in cui leggo un suo libro, ho come la
sensazione di ritornare nel Marocco che ho conosciuto e vissuto per
diverso tempo in passato, ritrovando tra le pagine non soltanto
luoghi, ma persino mentalità e modi di vivere della sua gente.
Al di là della vicenda di fantasia, dunque, anche il romanzo
in questione si rivela perfettamente aderente alla realtà
locale.
Una
lettura scorrevole, molto istruttiva e interessante. Non sarà
forse il migliore Tahar Ben Jelloun, se paragonato a quello di
diverse pubblicazioni precedenti, ma si tratta comunque di una prova
più che buona dello scrittore marocchino che, come di
consueto, non manca di suscitare nei lettori emozioni e riflessioni
non di poco conto, anzitutto sul senso dell’umano vivere al di
là di ogni possibile contesto culturale. E anche stavolta,
infine, il miele è poco e l’amarezza tanta.
Laura
Vargiu
|