I
confini dell’acqua. Fotopoesie -
Valentino Vitali, Carmen Lama -Youcanprint - Pagg. 134 - ISBN
9791221436594
- Euro 20,00
D’un
istante perfetto
Non
lumi di memoria né ricordi
ma
solo la bellezza dell’istante
che
non si perderà
incastonato
com’è fra cielo e lago
mentre
vagano gli occhi alla ricerca
dello
sguardo poetico che ha colto
lo
stupore il silenzio l’abbandono
Anche
se il lemma non compare nei vocabolari (e non soltanto in quelli
italiani), il termine fotopoesia
e le sue molteplici varianti –
tra tante: fotopoema,
fotopoetry,
fotoverso,
fotograffiti,
– vengono ormai da lungo tempo impiegati per designare una
forma d'arte in cui poesia e fotografia, poste su un piano di pari
dignità, si intrecciano simbioticamente per dar vita a un
prodotto artistico nuovo, originale, complesso e unitario al tempo
stesso.
La
prima attestazione dell’uso della parola si fa risalire al
1936, e per quanto l’accostamento tra immagini e versi sia già
ampiamente praticato, la sua presenza nel titolo di una raccolta
(Photopoems:
A Group of Interpretations through Photographs
di
Constance Phillips) offre al termine una indiscutibile
legittimazione.
Sin
dalle esperienze pionieristiche delle avanguardie novecentesche, poi
riprese con interesse crescente dalla fine degli anni ’50, si
osserva come e quanto gli artisti subiscano il fascino
dell’interlinguaggio, derivandone sempre nuove posture nei
confronti della realtà e raffinando strumenti per operare
feconde intersezioni tra le arti. È indubbio che la pratica
fertile delle contaminazioni tra discipline artistiche abbia
contribuito a sfumarne i contorni, lasciando emergere aspetti di
sorprendente continuità al di là degli steccati
categoriali.
In
generale, gli studi che nel corso del Novecento affrontano le
questioni messe in campo da questo genere di fenomeni artistici,
anche muovendo da vertici e prospettive diverse, pongono comunque
l’accento sull’importanza di non limitarsi a pensare alla
‘con-fusione’ delle arti come a mere sovrapposizioni o
giustapposizioni, come esito di una semplice sommatoria, ma di
coglierne la costituiva natura di eventi dotati di nuova e diversa
dinamicità, interattività, imprevedibilità, ed
esortando a pensarle come vere e proprie simultaneità
produttive, secondo l’espressione che Adriano Spatola
utilizza nel suo celebre saggio Verso la poesia totale (1969).
Non
difformemente, del resto, pur non muovendo da interessi estetici
quanto piuttosto di ordine conoscitivo, nel campo degli studi
sperimentali sulla percezione la Psicologia della Gestalt
perveniva già a inizio secolo a conclusioni analoghe, quando
affermava che il tutto è più della somma delle
parti, sancendo definitivamente un principio che avrebbe mostrato
la propria forza investendo ogni ambito culturale e ponendosi come
premessa a ogni discorso sulla complessità.
Ed
è proprio avendo bene in mente tale stimolante complessità
che si offriranno giusto ascolto e aperto sguardo al libro di
Valentino Vitali e Carmen Lama, dichiarata e ottimamente compiuta
opera di fotopoesia, affascinante simbiosi di luce e parole,
di immagini visive e verbali, intreccio originale di immediatezza
visiva e condensazione semantica.
Se
è vero che nella fotografia come nella poesia il significato
non è mai fissato definitivamente e, soprattutto, non è
contenuto esclusivamente all’interno dell’opera ma
dipende invece (anche) da un fruitore che – ne abbia coscienza
o no – lo costruisce e ricostruisce in base a un numero
inafferrabile di fattori, tra i quali la propria sensibilità,
la cultura, il contesto, lo stato d’animo, etc., nella
fotopoesia
la natura dell’interazione tra foto e testo poetico dilata
ulteriormente il potenziale semantico dell’immagine e quella
silenziosa pensosità
di cui parla Byung-Chul Han ne La
salvezza del bello (2019),
ne rivela il nascondiglio,
dispiega senza spiegare, e, contemporaneamente, offre enfasi
all’istantaneità del testo poetico e alla sua densità.
Esattamente
come raccomandato nel «Manifesto
di fotopoesia»,
esito delle interessanti collaborazioni tra Robert
Crawford e Norman McBeath, rispettivamente poeta e fotografo
britannici, così come le fotografie non dovranno porsi quali
illustrazioni dei testi poetici ma opere d’arte che risuonano
insieme a essi, le poesie siano ben lungi dall’essere mere
descrizioni delle immagini.
Qui,
in particolare, la poesia di Carmen Lama, dettato trasparente,
eleganza formale ricercata e raggiunta dentro forme chiuse che
rivelano un orecchio affinato da letture vaste e lungamente meditate
(e che, per inciso, richiamano alla mente la “cornice”
fotografica) non è mai ancillare didascalia dell’immagine
che, al contrario, con assertiva pacatezza, illumina mentre se ne
lascia illuminare.
I
temi rappresentati – l’inesausta aspirazione alla
bellezza, la cattura dell’istante, l’umanissima tenzone
con il tempo, il suo inarrestabile fluire, e, su tutto, il paesaggio,
segnatamente quello lacustre, un paesaggio che, zanzottianamente, è
anche «orizzonte psichico» – emergono nell’armonico
rincorrersi di versi e luce, insieme agli interrogativi
fondamentali sulla percezione visiva, sullo scarto irriducibile tra
visione e sguardo, tra realtà e immagine. La poesia talora
riflette su sé stessa, sul privilegio della meraviglia, sulla
propria responsabilità; si arrovella sul rapporto tra parola e
cosa: «Scrivo “pozzanghera”/e
già si muove un riflesso di luce/nell’acqua fangosa che
forma la parola/che “è” la stessa parola».
Nel farsi sempre più sfumato dei confini «fra soggetto e
oggetto», tra sé e mondo – sono confini d’acqua,
del resto, che, già a partire dal titolo della raccolta,
ossimoricamente sfuggono alla presa – l’io lirico sembra
maturare una nitida visione metapoetica: «La trasparenza della
fotografia/è uno sguardo che si spinge lontano/(…)/talvolta
con serendipità/scopre angoli nascosti/porta alla luce dei
veri tesori», recita un testo particolarmente pregnante.
«Il
rapporto tra poesia e fotografia è di rottura e serendipità,
appropriazione e scambio, evocazione e metafora», scrive
Michael Nott nel suo saggio Photopoetry,
1845 – 2015. A critical history (2016):
quella di Lama è dunque una netta dichiarazione di poetica.
Mentre i suoi versi e la fotografia evocativa di Vitali portano in
scena, appropriandosene, la sensuale bellezza dei luoghi ritratti
(«sono questi i miei luoghi», scrive la poetessa), si
occupano simultaneamente di ciò che è visibile e di
quanto non lo è. Le parole che Antonio Prete dedica al saggio
di Yves Bonnefoy, Poesia
e fotografia (2014) lo
spiegano con invidiabile chiarezza: «(…)
nell’implacabile rivelazione del caso, della nuda materia,
dell’assenza che la fotografia ha introdotto, ci può
essere, grazie all’alleanza tra lo sguardo del poeta e lo
sguardo del fotografo, una nuova presenza, un nuovo tempo.
Un’immagine salvata. Il nulla non avrà trionfato».
Patrizia
Sardisco
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