Gli
scrittori e la prima guerra mondiale
a cura di Renzo Montagnoli
E' indubbio che qualsiasi avvenimento
che porti in sé un'ampia tragicità possa costituire lo spunto per esaltare la creatività
degli scrittori e in questo senso la guerra con l'ossessionante incombenza
della morte costituisce un terreno fertile di idee.
Nel XX secolo ci sono state due
guerre che, per la loro portata e per il numero dei belligeranti coinvolti,
sono state definite mondiali. Non sono mancati autori che si sono cimentati con
la seconda, ma sono in numero limitato, mentre invece per la prima la presenza
di narratori e di poeti che ne hanno parlato è veramente cospicua e in genere
si tratta di gente che l'ha vissuta, che in un campo o nell'altro l'ha
combattuta, magari da convinto interventista e che a contatto con la realtà ha
scoperto quanto poco di bello ci sia nella morte e come la retorica lo avesse
indotto a passi da allucinato; di seguito parlerò di alcuni di loro
Su tutti svetta il tedesco Erich
Maria Remarque, con quel Niente di nuovo sul fronte occidentale che rappresenta fino a oggi
la più alta condanna di ogni guerra. E' questo un romanzo in parte
autobiografico in cui l'autore ha saputo riversare a piene mani tutta la sua
esperienza, mantenendo inalterato quel senso di angoscia che lentamente si
trasforma in rassegnata disperazione.
Sempre nella parte avversa c'è
l'austriaco Fritz Weber, osservatore attento dei fatti, più volto a
descriverceli con animo storico che a prendere le distanze dalla mostruosità
della guerra che, anzi, viene accettata, se pur non amata.
Così con Tappe della disfatta, Guerra
sulle Alpi e Dal Monte Nero a
Caporetto riesce a fornirci un prezioso contributo, frutto anche della sua
partecipazione, con gli occhi di uno che stava di là, cioè con quelli, peraltro
abbastanza imparziali, del nemico.
Un tentativo italiano, solo in parte
riuscito, di emulare l'universalità del romanzo di Remarque,
si ha con Un anno sull'altipiano, di
Emilio Lussu, un romanzo denso, pregnante, per non
definirlo di classe, in cui l'unico errore è nel dipingere come predominante
nella vicenda la figura terrea, priva di sentimenti, del generale Leone, sì che
sembra che gli orrori descritti finiscano con l'essere a lui imputabili e non
invece alla guerra.
Apprezzabile, anche se poco
conosciuto, è invece una sorta di diario scritto da Carlo Salsa e intitolato Trincee (confidenze di un fante).
Senza raggiungere l'universalità di Niente di nuovo sul fronte occidentale
riesce tuttavia a darci un'intensa visione dell'atmosfera del conflitto, sia
pure limitata agli avvenimenti che videro effettivamente protagonista l'autore.
Sarà per una certa indole
crepuscolare, sarà perché Salsa riesce ad ottenere in modo semplice
l'essenzialità, ma questo romanzo è quello che, partendo dal particolare, ha
più ambizioni di tendere all'universale, senza però arrivarvi, ma
avvicinandovisi di molto.
Ci sarebbe anche Addio alle armi, di Ernest Hemingway, basato sul periodo che trascorse
in Italia come conducente di ambulanze del nostro esercito. Purtroppo gli
intenti commerciali dell'opera sono fin troppo evidenti e l'immagine della
guerra, vista prima, durante e dopo la rotta di Caporetto, è offuscata da una
storia d'amore che è il vero e proprio cardine della narrazione.
Da ultimo, ma non meno importante,
c'è un'opera di grandissimo rilievo, scritta proprio in trincea, magari su un
pezzetto di carta, su un foglio di giornale, idee messe giù rapidamente perché
c'è l'incertezza del tempo, perché da lì a poco si potrebbe essere morti.
Mi riferisco All'allegria di naufragi, comprensiva della sua prima opera dal
titolo Il porto sepolto.
Con questi versi Giuseppe Ungaretti
avvia una nuova corrente letteraria, che prenderà il nome di ermetismo, termine
coniato per la prima volta nel 1936, con riferimento soprattutto alle opere del
grande poeta alessandrino.
Non intendo andare oltre parlando
appunto dell'ermetismo, della sua contrapposizione al decadentismo e al
futurismo, ma mi limito a osservare la grande efficacia di un poeta che in
pochissimo riesce a ricreare atmosfere, angosce, malinconiche rassegnazioni,
come in San Martino del Carso.
E' un testo di grande forza
espressiva, dove le immagini del paese distrutto dalla guerra sono richiamate
per somiglianza alle distruzioni nascoste nel suo cuore, causate dalla
scomparsa di tanti cari amici.
San Martino del Carso
Di queste case
Non è rimasto
Che qualche
Brandello di muro
Di tanti
Che mi corrispondevano
Non è rimasto
Neppure tanto
Ma nel cuore
Nessuna croce manca
E' il mio cuore
Il paese più straziato.