FRANÇOIS VILLON
Il primo romantico
di Fabrizio Manini
François de Montcorbier nasce a Parigi nel
1431. Non conoscerà mai né il padre né la madre, ma di lui si prenderà cura il
canonico Guillame de Villon
del quale assumerà il cognome come riconoscenza per il mantenimento agli studi.
Si iscrive all'università di Parigi dove conseguirà il baccalaureato in sei
anni, ma il periodo studentesco lo vede protagonista di tumulti e contestazioni spesso violenti. A ventiquattro anni uccide un
prete durante una rissa, ma non viene condannato grazie al perdono ottenuto
dalla vittima in punto di morte; nel 1456 compone il Lascito, che
egli dichiara scritto interamente nel giorno di Natale, e nel 1462 il Testamento
che, insieme alla prima opera, rappresenta il suo capolavoro. Con l'aiuto
di alcuni amici, commette un furto al collegio di Navarra e viene per questo
rinchiuso nella prigione di Meung-sur-Loire,
ma ancora una volta ottiene di evitare il patibolo grazie a un'amnistia concessa
dal re Luigi XI. Passa poco tempo ed è coinvolto, incolpevole, in una nuova
rissa, ma questa volta la condanna per impiccagione è definitiva. Riesce a
evitare la pena di morte scrivendo una ballata di burla al suo carceriere che,
sembra per questo motivo, lo libera. È il 1463 e da quel momento di François Villon si perde ogni traccia.
La Parigi del XV secolo in cui si trova a dover vivere Villon è una città terribilmente impoverita dalla guerra
dei Cent'anni, popolata di indigenti, di ladri, di usurai, di bari, di
truffatori, di acrobati, di assassini, di ruffiani, di prostitute, di un'ammasso di persone che
sopravvive a stento nei sotterranei e nelle taverne e che non conoscerà mai
benessere o sicurezza. Questo termitaio in perenne lotta per non soccombere
trasmette per forza di cose sentimenti di degrado e privazione, uniti a un'esistenza incattivita dagli stenti e disillusa
dalla vita. Villon conosce fin troppo bene questa
situazione e gli atteggiamenti che essa genera nel popolo ma egli, pur sapendo
e mai rinnegando da dove viene, ha qualcosa in più che non è la ricchezza ma
una cultura profonda e una sensibilità raffinata. Sarà la sua voce di poeta,
nata nei ghetti tra masse di diseredati, a riecheggiare lacerante e
fustigatrice quasi al servizio di un'umanità disperata che chiede pietà e
salvezza mentre guarda dai bassifondi il mondo irraggiungibile dei palazzi,
delle dame e dei signori. Il suo canto sale oltre la miseria e il gelo che
avvolge Parigi, sia contemplando le storie di vestigia perse nel tempo sia
nutrendo una sorta di speranza, per lui e per i suoi simili, in un destino non
tanto più benevolo quanto meno crudele di quello che è stato fino a ora.
Nelle sue
ballate Villon fissa le immagini di donne, di uomini,
di luoghi; parla di giustizia, di amore, di miseria, di morte. Egli nomina ciò
che vede, rispettando così l'unicità del soggetto con un atto poetico antico.
Egli, autore di commedie umane in versi, dice le bellezze e le brutture di
questo mondo, di questa vita, di questo tempo, guardando con occhio beffardo la
multiforme apparenza di una civiltà poliedrica e ingannatrice come quella degli
esseri umani. La sua malinconia e la sua disperazione, sempre lucidissime, attingono alla fugacità della vita che il poeta
coglie in due modi: in primo luogo come una passione furiosa e sanguigna per la
carne, per il fiato che sussurra e per il piacere che fugge, in secondo luogo
come angoscia onnipresente, come malattia e morte spietata o, più solennemente,
come legge ingiusta di uno stato-olimpo prodigo dispensatore di forca.
Lo scritto più universalmente noto di François Villon
è senza dubbio la celeberrima Ballata degli Impiccati. Era frequente
nella Parigi del XV secolo assistere alle esecuzioni sulla pubblica piazza con
l'uso di patiboli comuni dopo processi sommari e senza andare troppo per il
sottile; e sono proprio le reiterate visioni di tali
supplizi strazianti che hanno suggerito a Villon
questa lirica di ribellione a una giustizia iniqua e questi versi di riscatto
degli indifesi. L'atteggiamento sembra serioso, ma in realtà va dal burlesco al
sarcastico con l'intento di allontanare la paura per poi ricomporsi nella
clemenza divina. I toni macabri e grotteschi vengono superati dalla solidarietà
del “nous” (noi) che implora misericordia
mentre gli elementi e gli uccelli proseguono l'azione devastatrice iniziata
dagli uomini. La parola definitiva del poeta esprime compassione per tutti gli
impiccati della terra, accomunati da quel tragico ultimo istante, con uno
sguardo di sfida, sprezzante e ridanciano in una specie di rituale che
l'immaginario collettivo considera rivolto a una prospettiva di risveglio,
quasi da restituirci la gioia della vita nonostante la miseria abissale.
Riferimenti: François Villon – Lascito,
Testamento – Fabbri Editori;
François
Villon – Opere – Arnoldo Mondadori Editore.