CESARE
PAVESE
IL VIZIO DELLA SOLITUDINE
di
Fabrizio Manini
Cesare
Pavese nasce a S. Stefano Belbo, paesino delle basse
Langhe, nel 1908. I suoi esordi nella scrittura risentono molto di D'Annunzio, Gozzano, Leopardi, il cui sogno romantico si riflette in un
pessimismo fin troppo evidente. Il vero Pavese comunque è quello di Lavorare stanca, dove la poesia si apre
alla discorsività del racconto, attraverso un sostanziale cambiamento degli
schemi lirici legati al canone della tradizione, fondendosi con la metodica
narrativa della prosa. Nonostante il sostegno di Elio Vittorini il libro è un
insuccesso clamoroso, soprattutto perché in nettissimo contrasto con la
formalità simbolista ed ermetica tipica di quegli anni e anche per l'uso spregiudicato
di versi a tredici sillabe, considerati troppo innovativi e inadatti alla
scrittura. L'immagine poetica è incentrata sulla realtà osservata dall'esterno
e filtrata attraverso un'ottica decadentista che invoca sia l'evasione sia
l'inevitabilità del ritorno, temi molto cari a Pavese che li ha affrontati
anche narrativamente ne La luna e i falò. La terra ultima madre,
il contrasto fra la vita rurale e quella cittadina, le colline “viventi” delle
Langhe, l'aggressiva sensazione di una solitudine onnipresente, portano Pavese
a credere che sia possibile raggiungere la propria intima verità solo nel sogno
e nella morte. Il verde torbido, l'erba scintillante di rugiada, i colli nativi distesi alla gran luce del
meriggio d'estate, si contrappongono al giovane
sognatore triste, al vecchio
attrappito nella coperta sudicia, alle case
infinite, al cadere nella nebbia e
dentro il fango che trovano la loro riuscita nel vecchio rimorso e vizio assurdo della morte. È parlando di questo
che Pavese intende raggiungere e sentire sue le cose per dar loro un nome con
la scrittura; egli cerca di fare questo utilizzando una lingua vicina e
distante dal dialetto, che riesce a evocare una sorta di atmosfera epica pur
parlando di cose e di avvenimenti personali o terreni.
Le
produzioni successive, tra cui La terra e
la morte, Verrà la morte e avrà i
tuoi occhi, Il mestiere di vivere,
scavano nel solco del sangue, del sesso, della terra e, in generale, di una
solitudine mai superata e sempre più opprimente. L'abbraccio dell'erba, dei colori offre un po' di sollievo al
poeta, ma la terra è come la donna: sa essere terribilmente arida di parole e
di frutti e, talvolta, eccessivamente prodiga di sapori crudi e di morte; in
questo senso la figura femminile diviene per il poeta-scrittore immagine di
incertezza e angoscia, riflessa in un desiderio del nulla che aggrava
inevitabilmente il dolore psichico e accresce a dismisura il solipsismo del suo
ego.
Nel 1950
vince il premio Strega con La bella
estate, ma sembra non interessargli più di tanto e appena due mesi dopo si
uccide ingerendo elevate quantità di barbiturici. Il concetto del suicidio, e
anche alcuni tentativi di metterlo in pratica, è un pensiero che ha sempre
sovrastato la sua mente, fin dai primissimi anni; la sua disastrosa vita
affettiva, soprattutto nel senso di non essere mai ricambiato dei suoi
sentimenti, portò la passione a tramutarsi in disperazione e di conseguenza
alla tentata attuazione di gesti estremi. Egli ne era perfettamente
consapevole, tanto da scrivere all'ultima donna importante della sua vita,
l'attrice Constance Dowling,
con profetica lucidità che i pochi giorni
di meraviglia che ho strappato dalla tua vita erano quasi troppo per me; adesso
sono passati, ora comincia l'orrore, il nudo orrore e io sono pronto a questo.
La
produzione di Pavese, poesia o prosa che sia, ripropone costantemente alcuni
temi imprescindibili nella sua visione del mondo: l'infanzia vissuta nelle
Langhe, la campagna aspra, la vita faticosa, l'adolescenza istintiva, la
solitudine soffocante, il viaggio reale o simbolico verso la città e gli
ideali, la voglia di amare e di essere amato, la guerra con tutte le sue
brutture, vogliono trasmettere a chi legge che ogni individuo dovrà imparare a
essere uomo, scoprendo di possedere soltanto il ricordo che porta e il ricordo che lascia.
I due testi che vi propongo sono tratti da La terra e la morte e sintetizzano in
pochi versi “la donna” e “la terra” dal punto di vista pavesiano.
Tu sei come una terra che
nessuno ha mai detto.
Tu non attendi nulla se
non la parola
che sgorgherà dal fondo come un frutto tra
i rami.
C'è un vento che ti
giunge.
Cose secche e rimorte t'ingombrano e vanno nel vento.
Membra e parole antiche.
Tu tremi nell'estate.
E allora noi vili che
amavamo la sera
bisbigliante, le case, i sentieri sul fiume,
le luci rosse e sporche di quei luoghi,
il dolore
addolcito e taciuto –
noi tendemmo le mani alla viva catena
e tacemmo, ma il cuore ci sussultò di
sangue,
e non fu più dolcezza, non fu più
abbandonarsi
al sentiero sul fiume – non più servi,
sapemmo
di essere soli e vivi.
Riferimenti: Cesare Pavese, Le
Poesie, Fabbri Editori.