Tempo di vivere, tempo di morire
di
Erich Maria Remarque
Edizioni
Mondadori S.p.a.
Pagg.
388 – ISBN 88-04-47111-5 - € 8,40
a cura di Carmen Lama
È
un libro che racconta la morte e la vita. Mi ha tenuto col fiato sospeso dall'inizio
alla fine. Ogni pagina, ogni frase è una ricerca, una visione, una domanda. La
risposta è sempre implicita.
C'è
il senso di realtà tragica insieme al senso di disperazione e di speranza.
C'è
la vita che spunta dalla morte, da ogni morte, da tutte le morti. E spunta con
stupore, ma con determinazione, la si costruisce inconsapevolmente perché la si
desidera fortemente. Spunta anche nel senso dell'ironia che a volte prevale e
nasconde la malvagità, confinandola nei cuori nemici o cattivi e malvagi, non
importa se del proprio o dell'opposto fronte.
C'è
lo strazio e la desolazione dell'anima di fronte a tanta miserabile vergogna umana, disumana.
C'è
lo struggimento che non si trasforma mai in pietà o commiserazione né per se
stessi né per altri, ma è consapevole, rivolto a tutti gli affetti vecchi e
nuovi, ed è un cammino soffocato dell'anima.
C'è
il senso dell'individualismo portato all'estremo, per la propria sopravvivenza
ad ogni costo. E c'è il senso dell'altruismo per difesa o per opportunismo, ma
anche per rinsaldare affetti, per combattere la solitudine, per sperare
insieme. Ed entrambi coesistono nella stessa persona, che può essere malvagia,
oppressiva, prepotente, assassina con alcuni, e tenera appassionata buona con
altri.
Emerge
un animo umano, non solo del protagonista ma anche di altri personaggi,
complesso, disorientato per la propria stessa complessità e contraddittorietà,
capace di giustificare qualsiasi azione come “così dev'essere!”,
data l'eccezionalità della situazione, dove mors tua equivale a vita mea, in ogni caso.
C'è
il senso e l'arte dell'arrangiarsi e lo sviluppo accelerato di capacità adulte
che convivono in un animo ancora bambino, ancora capace di stupore, di
meraviglia, di tenerezza, ancora desideroso di carezze
materne, di affetti, di sogni.
Ci
sono la paura e il terrore negli occhi, nella mente, nel cuore,
ma insieme la capacità di cancellarli, di annullarli, di relegarli in
angoli fuori portata di sé come appartenenti ad altri da sé, come fossero
proiettati nello spazio infinito indefinito, per tenere salda la ragione e la
capacità di servirsene nei momenti più terribili e bui dell'esistenza che è
condotta da altri, dal destino, non guidata da se stessi.
Paradossalmente
tanta negatività genera la capacità di apprezzare le cose semplici della cui
esistenza ed essenza in condizioni normali neppure ci si accorge né si ha
consapevolezza.
C'è
anche il senso di responsabilità spinto al più alto grado, ad esempio nel
protagonista, anche quando non crede più in quello che è obbligato a fare e
tuttavia rientra al fronte al termine della licenza. E non è dettato (o forse
sì?) soltanto dalla paura di essere sottoposto a folli punizioni o addirittura
alla condanna a morte, ma sembra anche un modo per sentirsi a posto con la
propria coscienza e, magari, un modo per esorcizzare la crudeltà del destino
che non potrà (non lo si vorrebbe) accanirsi contro chi fa il proprio dovere(!), così come tale dovere è in quel preciso momento storico
concepito da chi ha potere di vita e di morte sui cittadini del proprio stato e
di quelli alleati e nemici.
Il
finale dice molto chiaramente che non si può -non-si-deve!- essere buoni in certe condizioni, che
non si può -non-ci-si-deve-fidare- dei nemici non
solo quando si sono esasperati con efferatezze ingiustificabili, ma forse
“mai”! Il clima di diffidenza reciproca, quando si è manifestato, difficilmente
può essere riportato alla fiducia. E la fine del protagonista, dovuta alla sua
intima bontà e al senso di giustizia, mi è parsa assurda!