Avventurandosi nel falsopiano della narrativa di Massimo
Bontempelli
di Sergio Sozi
Tanto per iniziare col
dente avvelenato, perché non esordiamo con un po' di storia editoriale italiana
contemporanea? Ecco: non una ristampa di alcuna delle numerose opere
bontempelliane sembra trovar posto, oggi, in libreria – vorremmo sottolineare
sùbito, approfittando malignamente del principio d'articolo per colorarlo della
fosca tinta che crediamo la vis polemica abbia, almeno sulla nostra tavolozza.
Ed i librai, comunque,
c'entrano poco. Chi siede dietro le scrivanie della Mondadori – non interessato
probabilmente a soddisfare altro che i palati fini dei letterati navigati – si
è ricordato del padre del Realismo Magico solo allo scopo di dare alle stampe i
due volumi delle opere complete, nell'àmbito della costosa collana dei
Meridiani. Questo è accaduto, poi, in sordina, nel 1991 (e parliamo della terza
ristampa, mentre la prima risale addirittura al '78!), quasi come se la casa
editrice milanese si vergognasse di aver pubblicato, fra il 1925 ed il '72, ben
diciotto altri lavori (nel '72, infatti, apparve tra gli Oscar la ristampa in
volume unico di Il figlio di due madri e Vita e morte di Adria e dei
suoi figli; e questo fu l'ultimo tentativo mondadoriano di vera
divulgazione).
Capiremmo l'imbarazzo di un
editore militante, schierato – alla luce della discutibile biografia
bontempelliana, annoverante, tra le varie res gestae, un'elezione ad
Accademico d'Italia nel '30, un confino nel '38, un'elezione a senatore del
Fronte Popolare invalidata nel '48, – ma non sarà facile giustificare oggi il
silenzio di quel colosso sfacciatamente industriale, allenato a gettare in
pasto alle rotative qualsiasi presunta avanguardia, sempre che sia assicurata
previa televisione o altra analoga pubblicità. Mah, forse proprio le meretrici
blasonate sono quelle che selezionano i clienti coi metodi più inverecondi (sia
perdonato l'esempio troppo realistico).
Comunque,
il presente intervento riguarda un autentico pensatore italiano (borghesissimo
figlio d'ingegnere), nato a Como nel 1878 e morto a Roma nel 1960. Un tizio
abbastanza – ed internazionalmente – importante, poiché gente come J.L. Borges
potrebbe aver verosimilmente avuto a che fare con lui – vista l'epoca, – e
magari addirittura aver succhiato qualcosina della copiosa linfa vitale ch'egli
profuse nei complicati meandri di un'opera durata una quarantina di anni. La
scrittura in prosa di Borges, sappiamo, inizia (in Argentina) nel 1930, mentre
quella di Bontempelli è di dieci anni precedente. Ed entrambi erano poeti.
Ma, lasciando la strada – da
sempre troppo abusata, con relative polemiche ed annose diatribe – delle
presunte paternità artistiche et similia, diremo che la ratio di un
onesto saggio dovrebbe restare confinata entro il recinto di qualche chiara
misura – nel senso di unità di misurazione, – accoppiata ad una manciata di
solari intuizioni e ad esempi quanto basta: la rilassatezza spirituale
ed intellettiva, così, avrà qualche probabilità in più di manifestarsi. Una
passione misurata e paziente, oltretutto, ci potrà condurre ad esporre qualcosa
di diverso rispetto ad un quadretto critico.
Dunque si oscillerà come
funamboli tra le diverse coordinate, con le quali ora si vuole riassumere – e
parallelamente illustrare, approfondire, onorare – l'opera narrativa di un
autore stupidamente dimenticato.
Per iniziare veramente,
affermeremo che proprio la narrativa non era di certo il mestiere più a lui
cònsono, quanto forse la filosofia stricto sensu. Vediamo per quali motivi.
Tutto
potremmo osservare nella sua personalità eccetto che i tic del narratore
disinibito, esperto, furbo… nel senso di organizzatore sapiente dei tempi della
narrazione moderna. E questo incidente caratterizza tutti coloro che
vogliano effettivamente dire qualcosa di metanarrativo: la trama non convince
(in senso classico), il maieuta, l'evocatore di immagini loquaci ed eteree,
spinge agli estremi le parole (così distillando storie apparentemente ingenue
e, nel caso specifico – almeno se confrontate con quelle di tanti affabulatori
nati, – alquanto fredde, artificiose). Ma attenzione! Le storie del Nostro
reggono. Perdono peso ma non sostanza; ridondanza ottocentesca, non
raffinatezza; termini ingrassanti, non vitamine. Per ottenere tale risultato,
l'autore si manifesta come stregone e chimico, in maniera da aprire le porte
della caotica realtà all'irrazionale di cui la vita umana è intrisa: il realismo
si congiunge alla magia, così, solo strumentalmente, e le chiavi
bontempelliane accarezzano maliziosamente gli usci delimitanti le stanze che formano l'esperienza, la logica, il tempo
umani. Rimane dunque chiaro sin da sùbito che egli pose i suoi
elettroni in un'orbita antropocentrica: è la teoria a monte, diremo, che ci
sembra mirata con esatta determinazione –
differentemente per esempio da un Borges – verso la problematica umana.
Bontempelli porta a spasso l'uomo nelle immensità cosmiche solo al fine di
renderlo edotto delle sue proprie capacità nascoste. È una faccenda, in fondo e
nel fondo, pedagogica, questa: l'estraniazione,
l'umorismo, la garbata derisione delle mode sociali, sono i metalli
ch'egli usa per forgiare chiavi/piedi di porco atte ad aprire/forzare gli
ingressi che la realtà apparente pone lungo i sentieri umani, allo scopo
di sbarrare il cammino alle coscienze, nel corso della loro ricerca di verità,
purezza e soluzioni. Soluzioni per inevitabili perversioni, naturalmente, ossia
per le ovvie nostre deviazioni dalla bellezza e dalla compiutezza, dal valore:
qualsiasi autentico valore che esista, influenzi, ossia orienti, ma non svii
dalla legittima aspirazione umana al
piacere terreno.
Il luogo comune (sociale,
interclassistico, insomma diffuso) aprire gli occhi, perciò, qui
acquista valore effettivo e senso compiuto tramite l'esatto contrario
(tutt'altro che avente significato positivo) chiudere gli occhi, e gli
opposti convergono nel medio:
Parlare della realtà
come se fosse sogno e del sogno come se fosse realtà (da: L'Avventura
Novecentista, 1938).
La bilancia è tarata
inesorabilmente bene, allora – ricordate? Parlavamo di materiale da pesare che,
nella prosa, ingrassa o alleggerisce il contenuto essenziale – e le chiavi
aderiscono ai meccanismi interni della psicologia moderna formato toppa… Ma
solo apparentemente moderni, sono, i meccanismi: che c'è di autenticamente
(cioè originalmente) moderno nel portare interrogativi astratti in
avventure contemporanee, ovvero dialoghi, domande retoriche, soliloqui,
riflessioni e tensioni? Non lo fece benissimo qualsiasi vero scrittore dell'Antichità?
Vediamo: Luciano di Samòsata, Petronio Arbitro… narratori ad hoc, no?
Di nuovo, in Bontempelli
(e non è poco), vi è la coscienza, trasmessa lucidamente al metodo
scrittorio, alla comunicazione. Egli dunque applicò alla pagina, con polso
fermo, un rigore morale ed una fermezza d'intenti, inattaccabili dal logorìo
modaiolo e dall'asfitticità delle tendenze. Un uomo antico in vesti moderne…
cravatta equivalente alla toga. Inoltre, la sua prosa rinuncia acutamente alla
fabbricazione di verità e logoi, altresì evitando ogni possibile
catastrofe – alludiamo alla dolorosa lapsis conseguente a qualsiasi
arrogante manifesto teorico (il saggio L'Avventura Novecentista, op.cit.
del 1938 è molto progettuale ma per nulla manifesto).
Il tenace avvertire la drammaturgia classica (vedasi il
claustrofobico, ellenizzante, romanzo Gente nel tempo) come la propria
unica, irrinunciabile, congeniale forma di trasmissione del pensiero (del
sentimento un po' meno, magari) è per noi un condensato di metodo, follia (Erasmo
docet?), prassi ammirabili. E tutto ciò si ritrova, scolpito nella vitalità,
cioè nell'istinto alla spiegazione. Si tratterebbe, anzi, di una risposta
(poetica) alla biologia, dice Carlo Bo:
Fedele alla sua dimensione,
Bontempelli coi racconti e coi romanzi aspetta tranquillamente la prova delle
mode, dei gusti occasionali, e non c'è dubbio che porti con sé tutto il
necessario per dimostrare una sorprendente vitalità o, per essere più esatti,
la sua capacità di risposta al senso della vita pura, chimicamente pura.
Ma contestualizzeremo
ulteriormente, anche quando possibile con l'ausilio di altri critici italiani,
la prosa del nostro illustre decaduto, d'ora in avanti. Senza fervore, certo,
ma con oculata disamina e dosata passione, lo sezioneremo.
È assiduo, per non dir
costante (vedansi le prove La vita intensa – romanzo dei romanzi del
1919 e Viaggi e scoperte, del '21), un andamento prosastico ritmico,
s'intenda sinuoso e regolare, di chiara ispirazione musicale. Quindi le
ricorrenti descritte scene di pubblico clamore e disordine cittadino, pur
cariche di pulsante elettricità, si smorzano sotto il battito regolare e
moderatore di un contrappunto vigile e delicato: il rischio filo-futuristico
viene così arginato (nonostante gente come il Giusso, nel '29, abbia ravvisato,
sotto un profilo negativo, una eccessiva fascinazione futuristica) e il
risultato definitivo è tutt'altro che scaturente da uno Scrittore
fondamentalmente arido e scettico, come altrove si espresse lo stesso
Lorenzo Giusso.
Usando invece le parole
di Goffredo Bellonci, troveremmo una buona definizione della Prosa d'Arte
italiana di quegli anni:
Nel prisma della
fantasia, nella prospettiva dello spirito, la realtà diventa metafisica
fiabesca mitica, come provano alcune opere narrative che non hanno riscontro in
nessuna letteratura contemporanea.
(E Bellonci accumuna
nell'esempio libri di Palazzeschi, Baldini, Bacchelli e Bontempelli; di
quest'ultimo per l'esattezza il racconto lungo La scacchiera davanti allo
specchio, del 1921).
Ma per misurare lo spazio
bontempelliano – così la fortunata formula di Fernando Tempesti nel suo
Castoro del 1974, – forse non basterà tirare in ballo gli indiscutibili (questi
sì, altro che Marinetti!) compagni di cordata ideali De Chirico, Lisi, Savinio
e… addirittura Pirandello. Surrealismo, esistenzialismo ante litteram,
metafisica pittorica, ecc, sono rimandi inesaustivi, per produrre una fedele
mappa; semplicemente perché il Nostro ama nascondersi solo dietro a se stesso e
riferire minimi stralci di ciò che scopre, privandoci – nel costruire
meccanismi narrativi efficienti, ma spesso volutamente irrisolti – di quel quid
che ci orienti in tale spazio: la bussola ce la dobbiamo creare in
perfetta solitudine, evitando in primis di affidarci, direi proprio… all'autore
stesso, il quale gioca a nascondino con tanti falsi dialoghi autore/lettore,
per meglio occultare i veri monologhi autore/autore…
Il Bontempelli narratore,
quanto di più manifestamente antiromantico esistesse in quegli anni Venti e
Trenta italiani, si distingue, secondo Adriano Tilgher, per una
Ragione sempre vigile
lucida fredda maliziosa, (che) uccide in germe ogni violenta reazione
sentimentale, inibisce ogni abbandono alle sollecitazioni dei sensi.
(A.Tilgher, 1924).
E l'operazione
antiromantica, condotta a cuore aperto, fa di lui un chirurgo impietoso e
leale, franco con il lettore/paziente che, seppur preso in giro, diabolicamente
raggirato e vittima di taglienti sorrisi insopprimibili (umorismo micidiale,
scandito e di sicuro effetto, il suo), non può esimersi dal ritenere il proprio
chirurgo/aguzzino un vero poeta del dubbio, un sensibile suggeritore di
avventure più che reali:
Bontempelli (…) prova
la validità delle sue formule su altri corpi, ma sempre senza perdere di vista
il risultato della poesia che, diciamolo chiaramente, con il passare degli anni
diventava il suo modo di spiegare la vita. (Carlo Bo, 1961. Lo scrittore
era scomparso l'anno precedente).
Si
era prima accennato ad un passo che ci sembrava asìncrono, rispetto alla
vera personalità letteraria di Bontempelli, e questo fu probabilmente L'Avventura
Novecentista (lungi, invece, dallo scrivente, tentare di localizzare delle
vere e proprie sfaldature, o solamente delle crepe, all'interno del corpo
sano narrativo); dunque useremo pure dei frammenti di quella specie di
manifesto teorico, apparso nel 1938, allo scopo di dimostrare che, se fosse
anch'esso dissezionato in tasselli ritagliati ad hoc, sarebbe certo possibile tracciare un quadro
esauriente dello scrittore: ma questo ritratto dovrà esser realizzato
cubisticamente, operando l'analisi e contemporaneamente la sintesi
(ossia grazie ad una combinazione che renda vacua, smentisca, la concezione
prospettico-illusionistica della quale la critica spesso suole pascersi per
tuonare ex cathedra), ed altresì evitando, nel ricomporre la silouhette, di
farsi prendere la mano dalle singole sfaccettature, ingrandendole gratuitamente
(questa regola il Gargiulo non la doveva conoscere, nella sua ansia di ingigantire
un cupio dissolvi solamente a lui bastante per bollare il Bontempelli
narratore di ozioso decadentismo). Per conoscere un poligrafo d'alta
classe come lui, che siano vagliati, quasi come se fossero parte integrante
dell'aspetto narrativo a cui è dedicato il presente contributo, anche i
movimenti cacofonici e gli eccessi di polemica, la cui presenza non potrebbe
non esser stigmatizzata nel détto L'avventura Novecentista… il quale
libro, però, contiene indubitabilmente anche molte affermazioni condivisibili
appieno come la seguente:
(…) L'arte non vuol dire
rappresentare la farmacia del villaggio (…). L'arte vuol dire risolvere, o
scrutare, o esprimere il proprio mistero; e ogni creatore trae speciali
conseguenze e forme da questo travaglio; e ogni secolo viene a trovare
raggruppati i suoi poeti più diversi secondo strane somiglianze. Cercai di fare
intendere le principali di tali somiglianze unificatrici, di tante sparse
tendenze, con una formula, che ha avuto una certa fortuna: Realismo Magico.
Al di
là dell'amara constatazione, desumibile dal passato prossimo: (…) una
formula che ha avuto, e cercando di dimenticare altre affermazioni
futuristicheggianti che si trovano in séguito (Liberarci dalla ripetizione
del vecchio; Favorire l'atmosfera del tempo nuovo, ecc.), vediamo assomigliarsi in maniera stupefacente
le formule Cubismo Analitico e Realismo Magico! Ma, a
spingere oltre il messaggio (rimasto in gran parte, poi, inapplicato al suo
modus agendi letterario), osserviamo anche un accostamento audace ed appetibile
(almeno quanto il purismo italiano
trecentista del primo Ottocento, quello del Cesari, insomma):
Ho perfino segnalato
la pittura del Quattrocento come la più vicina al nostro spirito.
Egli desidera ottenere un
Modo nostro di sentire
l'arte di altri secoli
e, con nostro,
intende affermare questa aspirata equivalenza:
Immaginazione è arte,
avventura è filosofia: Omero e Pitagora.
E diciamo aspirata,
perché L'Avventura Novecentista (purtroppo, per certi versi) rimarrà più
una descrizione reale del sogno che un sogno destinato a realizzarsi
positivamente, senza fraintendimenti attuativi (i quali, tuttavia, Bontempelli
a parte, sono sotto gli occhi di ciascuno di noi, trattandosi di robe
riguardanti la realtà quotidiana del nostro Secondo Millennio, ove i sogni
degli individui massificati vengono riconvertiti metodicamente in masse di
sogni individuali, spesso con la scusante della cosiddetta arte). Comunque il
fallimento del progetto novecentistico, a nostro avviso, era più che
avvertito dall'autore già nel 1938 stesso.
Per passare al piglio
battagliero (poiché ve ne sono ampie tracce nell'Avventura), osserveremo
che esso non viene indossato dal mite Bontempelli con gran successo:
rappresenta episodiche sfuriate, in fondo sempre melanconiche e sulla
difensiva: qui egli si stringe entro le mura merlate del maniero, da cui
dovrebbe dardeggiare, sia contro i reduci rondisti che contro certi
iperconservatori, vicini all'autarchia linguistica – pensiate che molti detrattori
della rivista 900, da lui diretta e fondata, la incolparono nel '26 di
esser negativa per l'immagine italiana all'estero solo perché era redatta in
lingua francese!
Sempre a proposito delle
guerricciole, come dimenticare che, anni prima del '26, egli si era battuto,
all'opposto, nell'infuriare della polemica carducciana, contro i crociani de La Voce di Prezzolini,
ossia dalla parte di Cronache Letterarie, in compagnia di un veramente
riottoso Ettore Romagnoli?
Per tornare a Bontempelli e
noi, crediamo che il nostro sia un momento storico nel quale sarebbe lecito
leggere questo autore genialoide e sincero in quanto Post-Neoclassicista consapevolmente Moderno. Infatti ci
troviamo socialmente ubicati ben oltre il raggio della sua avveniristica modernità:
si dovrebbe quasi decifrare i suoi (numerosi) racconti, immersi come siamo
nella metodica reiterazione del positivismo futuristico, poiché la humanitas
che da essi traspare affonda senza dubbio le sue radici in una consapevole
volontà di ricreazione mitologica. Adriano Seroni l'aveva capìto, quel
procedimento:
Dall'avventura (come
dinamica del sogno) al miracolo (come contemplazione del sogno) al mito (come
definitiva ricostruzione del sogno du type classique).
Lettura interessante,
questa ultima, perché ci pone in un campo nettamente umanistico – nonostante la
terminologia para-freudiana, – nel quale la coscienza del sogno si cala nella
codificazione verbale e l'intelligenza bontempelliana – quella tanto
deprecata dal Gargiulo – afferra la realtà onirica per renderla collettiva,
dunque così dovendo necessariamente capirla e perciò facendolo, alla maniera
dei classicisti che aborriscano l'erudizione e riescano a
(…) Mettersi con
occhio vergine di fronte al passato, costi la taccia (o il vanto?) di decadenti
dunque insegnandoci una
aggiuntiva regola imperitura:
Soffrire, patire,
risoffrire, ripatire per non invecchiare (entrambe le citazioni dal De
Robertis, 1962).
Eh sì… il non
invecchiare. O, Tempo, amante e alleato della quotidiana bassezza, tessitore di
nefandezze alle spalle dell'uomo!
Il senso di rarefazione,
di stanchezza, di tedio, aleggianti in molte sue opere, sono diretta
conseguenza di tale relazione confidenziale e timorosa con il tempo,
ontologicamente considerato. Anzi si tratta di un vero e proprio terrore del
tempo, che sarebbe certo meglio subire (alla maniera delle protagoniste de Il
figlio di due madri e di Gente nel tempo), piuttosto che affrontare
nei suoi risvolti quotidiani – i quali son visti, immagineremmo, come una
brutale violenza sul concetto temporale. Infatti la piattaforma novecentista (e
in questo, sì, egli riuscì a dare il buon esempio anche tramite la sua prosa)
esigé che
La vita più quotidiana
e normale
fosse vista
Come un avventuroso
miracolo: rischio continuo e continuo sforzo per scamparne (citazioni
sempre da L'Avventura Novecentista, op.cit.).
Fin qui, certe sue
precisazioni filosofiche. Ma nondimeno importanti saranno le misure
dell'operare artistico, ovvero i munera aventi il còmpito di delimitare
una creatività altrimenti incontrollabile, sfrenata, quale probabilmente era in
realtà la sua (e quale è la fantasia sprecata di tanti altri). Anche nel
parlare di questo, Bontempelli pensa a se stesso – al quale augura di agire conseguenzialmente
– e alla prosa altrui. Vorrebbe infatti una:
Precisione realistica
dei contorni, solidità di materia ben poggiata al suolo; e intorno come
un'atmosfera di magia che faccia sentire, traverso un'inquietudine intensa,
quasi un'altra dimensione in cui la vita nostra si proietta. (Da L'Avventura
Novecentista).
E in questo stralcio
sembra parlare di Gente nel tempo, – per la rigorosità geometrica
che quel romanzo contiene, – ma non contempla nel disegno l'arcano, lo
spiritualismo ultra-logico di racconti significativi come Convegno, né
l'annullamento totale della realtà che fonda la costruzione di Luci (è
tutta prosa breve degli anni '40; gli ultimi frutti che meriterebbero un
discorso a parte). Anche in Gente
nel tempo, però, la concezione, appunto, temporale, risulta cambiata,
rispetto alle novelle del 1919-1921. Vediamo dunque il racconto Ultimo
viaggio e scoperta suprema, contenuto in Viaggi e scoperte (1921), e
seguiamo l'itinerario delle riflessioni concernenti ancora questo problema, il
tempo. Inizia così:
(…) Io sentii questo:
non già che, passando tempo durante il nostro cammino, frattanto facevasi l'ora
notturna e ci sopraffaceva; ma che eravamo noi, col nostro moto, ad andare
incontro ad essa; (…) in altre parole, parvemi d'intuire che il giorno e la
notte non fossero se non due determinazioni di spazio.
Poi prosegue
nell'articolare il quesito:
Forse siam soliti di confondere lo spazio col tempo. E può anche essere
che gli spazi muovano verso noi quando il nostro corpo è fermo. (…) Non
essendoci accorti di questo, ecco inventammo il Tempo. Quanto mai distratto è
l'uomo, nella sua vita di ogni giorno! Il pensiero della inesistenza del Tempo
mi entusiasmò. Accertandola, tutti i concetti che immediatamente derivavano dal
Tempo dovrebbero decadere: tali la caducità, la vecchiezza, la paura, il
pentimento. E notisi che tutti i concetti che derivano dalla credenza nel Tempo
sono estremamente incomodi e corrosivi per la tranquillità dell'uomo. Invece il
Tempo non esiste, e l'uomo, l'uomo solo, creandoselo in seguito ad una secolare
distrazione, si è messo in signoria di quei terrori ed affanni.
Sembra che egli sia qui
giunto ormai ad accertare una sicura stigmatizzazione del tempo; ma abbiamo
notato una ''t'' maiuscola di troppo che non vuol levare l'incomodo.
L'incertezza permane:
Ma se io avessi dimostrata la detta inesistenza, avrei, con questa sola
scoperta teorica, attuata nella pratica la liberazione più grande che la storia
dell'uomo possa immaginare: ben più grande di quella che esaltò Empedocle
agrigentino e Lucrezio.
La formula è
inequivocabilmente dubitativa, e conduce ad una fase di angoscia:
Poiché il Tempo è da
noi supposto, e non è, che cosa dunque determina e limita a noi, cosidetti
mortali, quel tratto di spazio che va tra la supposizione della nascita e la
supposizione della morte? Noi, che viviamo, che mai stiamo facendo? (…) Noi
fuggiamo? – mi domandai – Ma essenziale al fuggire è una certa relativa brevità
del tempo. La fuga è concetto che deriva da quello del tempo. Dunque anch'essa
è inesistente. Questo nostro fuggire è un inganno?
Attenzione: il tempo sta
sparendo dall'orizzonte filosofico bontempelliano, poiché il suo creatore –
l'uomo – inizia a vederlo sottodimensionato a sé, conseguenza di un
autoinganno, di un fraintendimento psichico. Ma ecco la svolta, la sorpresa,
spuntare dalle ultime pagine del racconto, che narra in termini reali il
viaggio dell'autore (protagonista e voce narrante), assieme ad un altro uomo
sconosciuto, che lo guida attraverso un'immotivata fuga per boschi, campagne e
città. Una fuga dal Tempo che,
Se esistesse (…) e sapesse ch'io lo nego, forse si vendicherebbe.
E la definitiva
consacrazione di Kronos avviene in simultanea con quella di Anthropos:
Intesi dunque che solo nel tempo ero, e per esso; e m'aggrappai al
Tempo, unica ormai ragione del mio persistere.
Ciò segna anche il
ritorno del protagonista alle condizioni di partenza (la lettura della Teologia
di Proclo), unitamente a quello che ci sembra essere una rinnovata,
riconquistata anzi, serenità. Al filosofo neoplatonico Proclo, perciò, spetta
il corollario, che Bontempelli pone per metà come premessa al viaggio e
per metà come soluzione per il quesito generante l'esperienza descritta:
Tutte le cose che
esistono in qualche modo, risultano del limite e dell'infinito, per mezzo del
primo Ente. (Premessa);
(…) Ma tutti gli
esseri viventi sono motori di se stessi, mediante la prima vita, e tutti gli
esseri conoscenti partecipano della cognizione, mercé la prima mente. (Conclusione).
Tra le due parti si
sviluppa la fuga e, previa magnanimità del Tempo Ritrovato, il
protagonista guarisce dall'empietà, riconoscendosi uomo nel tempo.
Fin qui il racconto del
'21: una pacificazione; una pax temporalis che, nel '27, Gente nel
tempo annienterà, con le sue ultime fulminanti battute, decretanti la
follia per l'unico personaggio rimasto vivo. Vediamo anche questo.
Il romanzo Gente nel
tempo è la storia di una famiglia che, a partire dal giorno in cui morì la
madre paterna, soffre di una maledizione seriale: ogni cinque anni un
suo membro deve morire. Il dialogo che riporteremo è tenuto fra Dirce Medici
(la cui sorella Nora si è suicidata il giorno stesso per concedere a lei cinque
anni in più di vita) e l'abate Clementi, la sola persona che avesse capito
l'atroce gioco di quel destino anomalo (anticipato larvatamente dalla nonna, la Grande Vecchia, in
punto di morte: Tutto è regola, nella vita e nella morte):
- Hai vinto, Dirce?
- Nora ha voluto
salvarmi.
- Ti ha dato l'eternità?
- Cinque anni, abate
Clementi, cinque anni.
- Regalo orrendo: non
importa morire, importa non sapere quando. L'ignoranza è la giovinezza. Di mano
in mano che uno un poco lo sa, lui se ne va. La vita è essere incerti, Dirce,
la vita è non sapere, non sapere né quando né dove uno va, Dirce.
- Ma io credevo, in Dio,
abate Clementi.
- Anche i più credenti
non vogliono morire, dunque un poco dubitano. La vita è dubitare.
- Ma allora Nora, dov'è Nora?
- Nessuno lo sa. La vita è andarsene.
La vita è andarsene, e,
visto che Nora è morta, l'abate è in aperta contraddizione: se n'è
andata e basta… nessuno sa dove; dunque Nora non è morta, e la famiglia
Medici, in quanto consapevole di quando la morte giungerà, non è viva neanche
mentre vive: la vita risiede nel non saper altro che tutto quanto riguardi la
vita stessa, il viaggio. La famiglia Medici oscilla fra una morte in vita ed
una vita nella morte, diversamente da tutti gli altri, che rimangono compresi,
inglobati, fagocitati dalla vita, ovvero dalla salvifica ignoranza. Nora è
sparita agli occhi di chi ne sta parlando (l'autore, intendiamo), poiché era
stata partorita dalla morte, cioè era nata già morta in un'illusione di
esistenza terrena (e Samuel Beckett, decenni dopo, baserà Aspettando Godot
su una piattaforma concettuale identica a questa, ci sembra).
Nora e gli altri Medici,
dunque, non sono ignoranti, né incerti, bensì sapienti: non appartengono al
mondo dei fenomeni e delle scelte, delle ipotesi e del fideismo. Sono compiuti.
L'umanità appartiene al Tempo e la bacchetta magica per escluderla da esso la
hanno solamente i mitografi, allo scopo di dimostrare che il Tempo non ha
senso, è incomprensibile. La differenza, però, con Ultimo viaggio, è che
Gente nel tempo considera il Tempo come un monarca assoluto, sincretico
con Dio, con la Morte,
ma non con l'uomo. Allora come la mettiamo?
Gli attimi vengono creati
dall'uomo che, grazie ad essi, sa di essere in vita, ma all'interno del Tempo stesso
si annida anche l'ultimo attimo, che si chiama Morte e che sempre arriva. La
consapevolezza del tempo umano è la consapevolezza della condizione umana; nel
non-luogo, invece, l'attimo fatale porta l'uomo: nello scoccare di quell'attimo
un uomo muore.
Quell'attimo, da che parte starebbe: è o non è nel Tempo?
Sembra che l'autore,
tramite l'abate, ponga la morte all'interno della vita: la vita è andarsene
o la morte è andarsene? E tutto è regola anche nella vita.
Dunque, potremmo pensare che vita e morte siano la medesima cosa
per tutti, non solamente per l'assurdo, per il paradosso famiglia Medici.
L'umanità è la famiglia Medici che se ne va eternamente, in luoghi
imponderabili, ma situati nel Tempo. Qual'è la sintesi, signor Bontempelli?
Forse che l'uomo, nascendo, decide la propria morte, e ricupera la vita solo
per mezzo della catarsi, della riappropriazione
dell'ego:
- Chi siete?
- Sono io – risposi.
- Non basta.
- Deve bastare! –
proclamai con risolutezza. Egli insistette:
- Ditemi le vostre
generalità.
- Sono io, – ripetei –
non abito in nessun luogo, non possiedo nulla, non sono di nessuno.
( Da Nuove scoperte,
novella di Viaggi e scoperte).
La morte rimane umana, temporale. L'ego la contiene nel tempo, poiché
esso viaggia con il tempo, gli è affiancato: l'uomo, perciò, usando la sua
magia, è divino nella sua ignoranza dei trapassi, purché abbia consapevolezza
dell'ego. Se ne deduce che la morte non dovrebbe costituire un problema umano,
essendo un interrogativo insolubile perché fittizio e basta. Però tutto cambia
e niente ritorna, dice l'autore altrove (non citeremo dove per mancanza di
spazio)…
E così si va (un poco
forzatamente, invero) a concludere queste riflessioni: pensando, dopotutto, che
propriamente nelle contraddizioni risieda la sua poesia che spiega la vita,
come enunciato da Carlo Bo… ed anche in ironica attesa di ulteriori studi su un
caso letterario che, per noi, resta pure un caso umano irrisolvibile. Lo è,
soprattutto se nessuno lo vuole o lo può leggere, per poco che sia leggere
Massimo Bontempelli al fine di conoscere Massimo Bontempelli. D'altronde, oggi
conoscere equivale a divertirsi, per via dello svago a cui sarebbe destinata la
narrativa, la poesia… il nostro tempo. Cosa pretenderemmo di più?
Bibliografia essenziale delle
opere (si sono evitate le edizioni quasi introvabili, cioè pressoché tutte le
prime)
Romanzi, novellistica e prose
varie (compresi i saggi)
La vita intensa – romanzo dei romanzi, Milano, Mondadori, 1925²
La vita operosa – nuovi racconti ed avventure, Milano,
Mondadori, 1925²
Viaggi e scoperte – ultime avventure, Milano, Mondadori, 1925²
La scacchiera davanti allo specchio, Milano, Mondadori, 1925² (insieme con la seguente)
Eva ultima – romanzo, Milano,
Mondadori, 1925² (insieme con la precedente)
Donna nel sole ed altri idilli, Milano,
Mondadori, 1928
Il figlio di due madri, Roma,
Sapientia, 1931³
L'Avventura Novecentista, Firenze,
Vallecchi, 1938
Giro del sole, Milano, Mondadori, 1941
Gente nel tempo, (nella collana La Medusa degli Italiani),
Milano, Mondadori, 1946²
L'amante fedele, Milano, Mondadori, 1953
Opere, (nella collana I Meridiani),
Milano, Mondadori, 1991³
Teatro
Nostra dea – commedia, Milano,
Mondadori, 1925
Minnie la candida, Milano,
Mondadori, 1929
Scritti su Massimo
Bontempelli consultati
Adriano Tilgher, Ricognizioni, Roma, Libreria di Scienze e
Lettere, 1924
Lorenzo Giusso, Il
viandante e le statue, Milano, Corbaccio, 1929
Alfredo Gargiulo, in Letteratura italiana del novecento,
Firenze, Le Monnier, 1943²
Carlo Bo, Bontempelli, Padova, Cedam, 1943
Adriano Seroni, Avventura e mito in Bontempelli, in Ragioni
critiche, Firenze, Vallecchi, 1944
Goffredo Bellonci, Prosa italiana del Novecento, in Beltempo.Almanacco
dellle lettere e delle arti, Roma, La cometa, 1940
Fernando Tempesti, Bontempelli (collana Il castoro),
Firenze, La Nuova Italia,
1974
Giuseppe De Robertis, recensione di Giro del sole in Altro
novecento, Firenze, Le Monnier, 1962