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  Letteratura  »  Avventurandosi nel falsopiano della narrativa di Massimo Bontempelli, di Sergio sozi 03/04/2009
 

Avventurandosi nel falsopiano della narrativa di Massimo Bontempelli

di Sergio Sozi

 

   Tanto per iniziare col dente avvelenato, perché non esordiamo con un po' di storia editoriale italiana contemporanea? Ecco: non una ristampa di alcuna delle numerose opere bontempelliane sembra trovar posto, oggi, in libreria – vorremmo sottolineare sùbito, approfittando malignamente del principio d'articolo per colorarlo della fosca tinta che crediamo la vis polemica abbia, almeno sulla nostra tavolozza.

   Ed i librai, comunque, c'entrano poco. Chi siede dietro le scrivanie della Mondadori – non interessato probabilmente a soddisfare altro che i palati fini dei letterati navigati – si è ricordato del padre del Realismo Magico solo allo scopo di dare alle stampe i due volumi delle opere complete, nell'àmbito della costosa collana dei Meridiani. Questo è accaduto, poi, in sordina, nel 1991 (e parliamo della terza ristampa, mentre la prima risale addirittura al '78!), quasi come se la casa editrice milanese si vergognasse di aver pubblicato, fra il 1925 ed il '72, ben diciotto altri lavori (nel '72, infatti, apparve tra gli Oscar la ristampa in volume unico di Il figlio di due madri e Vita e morte di Adria e dei suoi figli; e questo fu l'ultimo tentativo mondadoriano di vera divulgazione).

   Capiremmo l'imbarazzo di un editore militante, schierato – alla luce della discutibile biografia bontempelliana, annoverante, tra le varie res gestae, un'elezione ad Accademico d'Italia nel '30, un confino nel '38, un'elezione a senatore del Fronte Popolare invalidata nel '48, – ma non sarà facile giustificare oggi il silenzio di quel colosso sfacciatamente industriale, allenato a gettare in pasto alle rotative qualsiasi presunta avanguardia, sempre che sia assicurata previa televisione o altra analoga pubblicità. Mah, forse proprio le meretrici blasonate sono quelle che selezionano i clienti coi metodi più inverecondi (sia perdonato l'esempio troppo realistico).

   Comunque, il presente intervento riguarda un autentico pensatore italiano (borghesissimo figlio d'ingegnere), nato a Como nel 1878 e morto a Roma nel 1960. Un tizio abbastanza – ed internazionalmente – importante, poiché gente come J.L. Borges potrebbe aver verosimilmente avuto a che fare con lui – vista l'epoca, – e magari addirittura aver succhiato qualcosina della copiosa linfa vitale ch'egli profuse nei complicati meandri di un'opera durata una quarantina di anni. La scrittura in prosa di Borges, sappiamo, inizia (in Argentina) nel 1930, mentre quella di Bontempelli è di dieci anni precedente. Ed entrambi erano poeti.

   Ma, lasciando la strada – da sempre troppo abusata, con relative polemiche ed annose diatribe – delle presunte paternità artistiche et similia, diremo che la ratio di un onesto saggio dovrebbe restare confinata entro il recinto di qualche chiara misura – nel senso di unità di misurazione, – accoppiata ad una manciata di solari intuizioni e ad esempi quanto basta: la rilassatezza spirituale ed intellettiva, così, avrà qualche probabilità in più di manifestarsi. Una passione misurata e paziente, oltretutto, ci potrà condurre ad esporre qualcosa di diverso rispetto ad un quadretto critico.

   Dunque si oscillerà come funamboli tra le diverse coordinate, con le quali ora si vuole riassumere – e parallelamente illustrare, approfondire, onorare – l'opera narrativa di un autore stupidamente dimenticato.

   Per iniziare veramente, affermeremo che proprio la narrativa non era di certo il mestiere più a lui cònsono, quanto forse la filosofia stricto sensu. Vediamo per quali motivi.

   Tutto potremmo osservare nella sua personalità eccetto che i tic del narratore disinibito, esperto, furbo… nel senso di organizzatore sapiente dei tempi della narrazione moderna. E questo incidente caratterizza tutti coloro che vogliano effettivamente dire qualcosa di metanarrativo: la trama non convince (in senso classico), il maieuta, l'evocatore di immagini loquaci ed eteree, spinge agli estremi le parole (così distillando storie apparentemente ingenue e, nel caso specifico – almeno se confrontate con quelle di tanti affabulatori nati, – alquanto fredde, artificiose). Ma attenzione! Le storie del Nostro reggono. Perdono peso ma non sostanza; ridondanza ottocentesca, non raffinatezza; termini ingrassanti, non vitamine. Per ottenere tale risultato, l'autore si manifesta come stregone e chimico, in maniera da aprire le porte della caotica realtà all'irrazionale di cui la vita umana è intrisa: il realismo si congiunge alla magia, così, solo strumentalmente, e le chiavi bontempelliane accarezzano maliziosamente gli usci delimitanti le stanze che formano l'esperienza, la logica, il tempo umani. Rimane dunque chiaro sin da sùbito che egli pose i suoi elettroni in un'orbita antropocentrica: è la teoria a monte, diremo, che ci sembra mirata con esatta determinazione –  differentemente per esempio da un Borges – verso la problematica umana. Bontempelli porta a spasso l'uomo nelle immensità cosmiche solo al fine di renderlo edotto delle sue proprie capacità nascoste. È una faccenda, in fondo e nel fondo, pedagogica, questa: l'estraniazione, l'umorismo, la garbata derisione delle mode sociali, sono i metalli ch'egli usa per forgiare chiavi/piedi di porco atte ad aprire/forzare gli ingressi che la realtà apparente pone lungo i sentieri umani, allo scopo di sbarrare il cammino alle coscienze, nel corso della loro ricerca di verità, purezza e soluzioni. Soluzioni per inevitabili perversioni, naturalmente, ossia per le ovvie nostre deviazioni dalla bellezza e dalla compiutezza, dal valore: qualsiasi autentico valore che esista, influenzi, ossia orienti, ma non svii dalla legittima aspirazione umana al piacere terreno.

   Il luogo comune (sociale, interclassistico, insomma diffuso) aprire gli occhi, perciò, qui acquista valore effettivo e senso compiuto tramite l'esatto contrario (tutt'altro che avente significato positivo) chiudere gli occhi, e gli opposti convergono nel medio:

 

   Parlare della realtà come se fosse sogno e del sogno come se fosse realtà (da: L'Avventura Novecentista, 1938).

 

   La bilancia è tarata inesorabilmente bene, allora – ricordate? Parlavamo di materiale da pesare che, nella prosa, ingrassa o alleggerisce il contenuto essenziale – e le chiavi aderiscono ai meccanismi interni della psicologia moderna formato toppa… Ma solo apparentemente moderni, sono, i meccanismi: che c'è di autenticamente (cioè originalmente) moderno nel portare interrogativi astratti in avventure contemporanee, ovvero dialoghi, domande retoriche, soliloqui, riflessioni e tensioni? Non lo fece benissimo qualsiasi vero scrittore dell'Antichità? Vediamo: Luciano di Samòsata, Petronio Arbitro… narratori ad hoc, no?

   Di nuovo, in Bontempelli (e non è poco), vi è la coscienza, trasmessa lucidamente al metodo scrittorio, alla comunicazione. Egli dunque applicò alla pagina, con polso fermo, un rigore morale ed una fermezza d'intenti, inattaccabili dal logorìo modaiolo e dall'asfitticità delle tendenze. Un uomo antico in vesti moderne… cravatta equivalente alla toga. Inoltre, la sua prosa rinuncia acutamente alla fabbricazione di verità e logoi, altresì evitando ogni possibile catastrofe – alludiamo alla dolorosa lapsis conseguente a qualsiasi arrogante manifesto teorico (il saggio L'Avventura Novecentista, op.cit. del 1938 è molto progettuale ma per nulla manifesto).

   Il tenace avvertire la drammaturgia classica (vedasi il claustrofobico, ellenizzante, romanzo Gente nel tempo) come la propria unica, irrinunciabile, congeniale forma di trasmissione del pensiero (del sentimento un po' meno, magari) è per noi un condensato di metodo, follia (Erasmo docet?), prassi ammirabili. E tutto ciò si ritrova, scolpito nella vitalità, cioè nell'istinto alla spiegazione. Si tratterebbe, anzi, di una risposta (poetica) alla biologia, dice Carlo Bo:

 

   Fedele alla sua dimensione, Bontempelli coi racconti e coi romanzi aspetta tranquillamente la prova delle mode, dei gusti occasionali, e non c'è dubbio che porti con sé tutto il necessario per dimostrare una sorprendente vitalità o, per essere più esatti, la sua capacità di risposta al senso della vita pura, chimicamente pura.

 

   Ma contestualizzeremo ulteriormente, anche quando possibile con l'ausilio di altri critici italiani, la prosa del nostro illustre decaduto, d'ora in avanti. Senza fervore, certo, ma con oculata disamina e dosata passione, lo sezioneremo.

   È assiduo, per non dir costante (vedansi le prove La vita intensa – romanzo dei romanzi del 1919 e Viaggi e scoperte, del '21), un andamento prosastico ritmico, s'intenda sinuoso e regolare, di chiara ispirazione musicale. Quindi le ricorrenti descritte scene di pubblico clamore e disordine cittadino, pur cariche di pulsante elettricità, si smorzano sotto il battito regolare e moderatore di un contrappunto vigile e delicato: il rischio filo-futuristico viene così arginato (nonostante gente come il Giusso, nel '29, abbia ravvisato, sotto un profilo negativo, una eccessiva fascinazione futuristica) e il risultato definitivo è tutt'altro che scaturente da uno Scrittore fondamentalmente arido e scettico, come altrove si espresse lo stesso Lorenzo Giusso.

   Usando invece le parole di Goffredo Bellonci, troveremmo una buona definizione della Prosa d'Arte italiana di quegli anni:

 

   Nel prisma della fantasia, nella prospettiva dello spirito, la realtà diventa metafisica fiabesca mitica, come provano alcune opere narrative che non hanno riscontro in nessuna letteratura contemporanea.

 

   (E Bellonci accumuna nell'esempio libri di Palazzeschi, Baldini, Bacchelli e Bontempelli; di quest'ultimo per l'esattezza il racconto lungo La scacchiera davanti allo specchio, del 1921).

   Ma per misurare lo spazio bontempelliano – così la fortunata formula di Fernando Tempesti nel suo Castoro del 1974, – forse non basterà tirare in ballo gli indiscutibili (questi sì, altro che Marinetti!) compagni di cordata ideali De Chirico, Lisi, Savinio e… addirittura Pirandello. Surrealismo, esistenzialismo ante litteram, metafisica pittorica, ecc, sono rimandi inesaustivi, per produrre una fedele mappa; semplicemente perché il Nostro ama nascondersi solo dietro a se stesso e riferire minimi stralci di ciò che scopre, privandoci – nel costruire meccanismi narrativi efficienti, ma spesso volutamente irrisolti – di quel quid che ci orienti in tale spazio: la bussola ce la dobbiamo creare in perfetta solitudine, evitando in primis di affidarci, direi proprio… all'autore stesso, il quale gioca a nascondino con tanti falsi dialoghi autore/lettore, per meglio occultare i veri monologhi autore/autore…

   Il Bontempelli narratore, quanto di più manifestamente antiromantico esistesse in quegli anni Venti e Trenta italiani, si distingue, secondo Adriano Tilgher, per una

 

   Ragione sempre vigile lucida fredda maliziosa, (che) uccide in germe ogni violenta reazione sentimentale, inibisce ogni abbandono alle sollecitazioni dei sensi. (A.Tilgher, 1924).

 

   E l'operazione antiromantica, condotta a cuore aperto, fa di lui un chirurgo impietoso e leale, franco con il lettore/paziente che, seppur preso in giro, diabolicamente raggirato e vittima di taglienti sorrisi insopprimibili (umorismo micidiale, scandito e di sicuro effetto, il suo), non può esimersi dal ritenere il proprio chirurgo/aguzzino un vero poeta del dubbio, un sensibile suggeritore di avventure più che reali:

 

   Bontempelli (…) prova la validità delle sue formule su altri corpi, ma sempre senza perdere di vista il risultato della poesia che, diciamolo chiaramente, con il passare degli anni diventava il suo modo di spiegare la vita. (Carlo Bo, 1961. Lo scrittore era scomparso l'anno precedente).

 

   Si era prima accennato ad un passo che ci sembrava asìncrono, rispetto alla vera personalità letteraria di Bontempelli, e questo fu probabilmente L'Avventura Novecentista (lungi, invece, dallo scrivente, tentare di localizzare delle vere e proprie sfaldature, o solamente delle crepe, all'interno del corpo sano narrativo); dunque useremo pure dei frammenti di quella specie di manifesto teorico, apparso nel 1938, allo scopo di dimostrare che, se fosse anch'esso dissezionato in tasselli ritagliati ad hoc, sarebbe certo possibile tracciare un quadro esauriente dello scrittore: ma questo ritratto dovrà esser realizzato cubisticamente, operando l'analisi e contemporaneamente la sintesi (ossia grazie ad una combinazione che renda vacua, smentisca, la concezione prospettico-illusionistica della quale la critica spesso suole pascersi per tuonare ex cathedra), ed altresì evitando, nel ricomporre la silouhette, di farsi prendere la mano dalle singole sfaccettature, ingrandendole gratuitamente (questa regola il Gargiulo non la doveva conoscere, nella sua ansia di ingigantire un cupio dissolvi solamente a lui bastante per bollare il Bontempelli narratore di ozioso decadentismo). Per conoscere un poligrafo d'alta classe come lui, che siano vagliati, quasi come se fossero parte integrante dell'aspetto narrativo a cui è dedicato il presente contributo, anche i movimenti cacofonici e gli eccessi di polemica, la cui presenza non potrebbe non esser stigmatizzata nel détto L'avventura Novecentista… il quale libro, però, contiene indubitabilmente anche molte affermazioni condivisibili appieno come la seguente:

 

   (…) L'arte non vuol dire rappresentare la farmacia del villaggio (…). L'arte vuol dire risolvere, o scrutare, o esprimere il proprio mistero; e ogni creatore trae speciali conseguenze e forme da questo travaglio; e ogni secolo viene a trovare raggruppati i suoi poeti più diversi secondo strane somiglianze. Cercai di fare intendere le principali di tali somiglianze unificatrici, di tante sparse tendenze, con una formula, che ha avuto una certa fortuna: Realismo Magico.

 

   Al di là dell'amara constatazione, desumibile dal passato prossimo: (…) una formula che ha avuto, e cercando di dimenticare altre affermazioni futuristicheggianti che si trovano in séguito (Liberarci dalla ripetizione del vecchio; Favorire l'atmosfera del tempo nuovo, ecc.), vediamo assomigliarsi in maniera stupefacente le formule Cubismo Analitico e Realismo Magico! Ma, a spingere oltre il messaggio (rimasto in gran parte, poi, inapplicato al suo modus agendi letterario), osserviamo anche un accostamento audace ed appetibile (almeno quanto il purismo italiano trecentista del primo Ottocento, quello del Cesari, insomma):

 

   Ho perfino segnalato la pittura del Quattrocento come la più vicina al nostro spirito.

 

   Egli desidera ottenere un

 

   Modo nostro di sentire l'arte di altri secoli

 

   e, con nostro, intende affermare questa aspirata equivalenza:

 

   Immaginazione è arte, avventura è filosofia: Omero e Pitagora.

 

   E diciamo aspirata, perché L'Avventura Novecentista (purtroppo, per certi versi) rimarrà più una descrizione reale del sogno che un sogno destinato a realizzarsi positivamente, senza fraintendimenti attuativi (i quali, tuttavia, Bontempelli a parte, sono sotto gli occhi di ciascuno di noi, trattandosi di robe riguardanti la realtà quotidiana del nostro Secondo Millennio, ove i sogni degli individui massificati vengono riconvertiti metodicamente in masse di sogni individuali, spesso con la scusante della cosiddetta arte). Comunque il fallimento del progetto novecentistico, a nostro avviso, era più che avvertito dall'autore già nel 1938 stesso.

   Per passare al piglio battagliero (poiché ve ne sono ampie tracce nell'Avventura), osserveremo che esso non viene indossato dal mite Bontempelli con gran successo: rappresenta episodiche sfuriate, in fondo sempre melanconiche e sulla difensiva: qui egli si stringe entro le mura merlate del maniero, da cui dovrebbe dardeggiare, sia contro i reduci rondisti che contro certi iperconservatori, vicini all'autarchia linguistica – pensiate che molti detrattori della rivista 900, da lui diretta e fondata, la incolparono nel '26 di esser negativa per l'immagine italiana all'estero solo perché era redatta in lingua francese!

   Sempre a proposito delle guerricciole, come dimenticare che, anni prima del '26, egli si era battuto, all'opposto, nell'infuriare della polemica carducciana, contro i crociani de La Voce di Prezzolini, ossia dalla parte di Cronache Letterarie, in compagnia di un veramente riottoso Ettore Romagnoli?

   Per tornare a Bontempelli e noi, crediamo che il nostro sia un momento storico nel quale sarebbe lecito leggere questo autore genialoide e sincero in quanto Post-Neoclassicista consapevolmente Moderno. Infatti ci troviamo socialmente ubicati ben oltre il raggio della sua avveniristica modernità: si dovrebbe quasi decifrare i suoi (numerosi) racconti, immersi come siamo nella metodica reiterazione del positivismo futuristico, poiché la humanitas che da essi traspare affonda senza dubbio le sue radici in una consapevole volontà di ricreazione mitologica. Adriano Seroni l'aveva capìto, quel procedimento:

 

   Dall'avventura (come dinamica del sogno) al miracolo (come contemplazione del sogno) al mito (come definitiva ricostruzione del sogno du type classique).

 

   Lettura interessante, questa ultima, perché ci pone in un campo nettamente umanistico – nonostante la terminologia para-freudiana, – nel quale la coscienza del sogno si cala nella codificazione verbale e l'intelligenza bontempelliana – quella tanto deprecata dal Gargiulo – afferra la realtà onirica per renderla collettiva, dunque così dovendo necessariamente capirla e perciò facendolo, alla maniera dei classicisti che aborriscano l'erudizione e riescano a

 

   (…) Mettersi con occhio vergine di fronte al passato, costi la taccia (o il vanto?) di decadenti

 

   dunque insegnandoci una aggiuntiva regola imperitura:

 

   Soffrire, patire, risoffrire, ripatire per non invecchiare (entrambe le citazioni dal De Robertis, 1962).

 

   Eh sì… il non invecchiare. O, Tempo, amante e alleato della quotidiana bassezza, tessitore di nefandezze alle spalle dell'uomo!

   Il senso di rarefazione, di stanchezza, di tedio, aleggianti in molte sue opere, sono diretta conseguenza di tale relazione confidenziale e timorosa con il tempo, ontologicamente considerato. Anzi si tratta di un vero e proprio terrore del tempo, che sarebbe certo meglio subire (alla maniera delle protagoniste de Il figlio di due madri e di Gente nel tempo), piuttosto che affrontare nei suoi risvolti quotidiani – i quali son visti, immagineremmo, come una brutale violenza sul concetto temporale. Infatti la piattaforma novecentista (e in questo, sì, egli riuscì a dare il buon esempio anche tramite la sua prosa) esigé che

 

   La vita più quotidiana e normale

  

   fosse vista

 

   Come un avventuroso miracolo: rischio continuo e continuo sforzo per scamparne (citazioni sempre da L'Avventura Novecentista, op.cit.).

 

   Fin qui, certe sue precisazioni filosofiche. Ma nondimeno importanti saranno le misure dell'operare artistico, ovvero i munera aventi il còmpito di delimitare una creatività altrimenti incontrollabile, sfrenata, quale probabilmente era in realtà la sua (e quale è la fantasia sprecata di tanti altri). Anche nel parlare di questo, Bontempelli pensa a se stesso – al quale augura di agire conseguenzialmente – e alla prosa altrui. Vorrebbe infatti una:

 

   Precisione realistica dei contorni, solidità di materia ben poggiata al suolo; e intorno come un'atmosfera di magia che faccia sentire, traverso un'inquietudine intensa, quasi un'altra dimensione in cui la vita nostra si proietta. (Da L'Avventura Novecentista).

 

   E in questo stralcio sembra parlare di Gente nel tempo, per la rigorosità geometrica che quel romanzo contiene, – ma non contempla nel disegno l'arcano, lo spiritualismo ultra-logico di racconti significativi come Convegno, né l'annullamento totale della realtà che fonda la costruzione di Luci (è tutta prosa breve degli anni '40; gli ultimi frutti che meriterebbero un discorso a parte). Anche in Gente nel tempo, però, la concezione, appunto, temporale, risulta cambiata, rispetto alle novelle del 1919-1921. Vediamo dunque il racconto Ultimo viaggio e scoperta suprema, contenuto in Viaggi e scoperte (1921), e seguiamo l'itinerario delle riflessioni concernenti ancora questo problema, il tempo. Inizia così:

 

   (…) Io sentii questo: non già che, passando tempo durante il nostro cammino, frattanto facevasi l'ora notturna e ci sopraffaceva; ma che eravamo noi, col nostro moto, ad andare incontro ad essa; (…) in altre parole, parvemi d'intuire che il giorno e la notte non fossero se non due determinazioni di spazio.

 

   Poi prosegue nell'articolare il quesito:

 

   Forse siam soliti di confondere lo spazio col tempo. E può anche essere che gli spazi muovano verso noi quando il nostro corpo è fermo. (…) Non essendoci accorti di questo, ecco inventammo il Tempo. Quanto mai distratto è l'uomo, nella sua vita di ogni giorno! Il pensiero della inesistenza del Tempo mi entusiasmò. Accertandola, tutti i concetti che immediatamente derivavano dal Tempo dovrebbero decadere: tali la caducità, la vecchiezza, la paura, il pentimento. E notisi che tutti i concetti che derivano dalla credenza nel Tempo sono estremamente incomodi e corrosivi per la tranquillità dell'uomo. Invece il Tempo non esiste, e l'uomo, l'uomo solo, creandoselo in seguito ad una secolare distrazione, si è messo in signoria di quei terrori ed affanni.

 

   Sembra che egli sia qui giunto ormai ad accertare una sicura stigmatizzazione del tempo; ma abbiamo notato una ''t'' maiuscola di troppo che non vuol levare l'incomodo. L'incertezza permane:

 

   Ma se io avessi dimostrata la detta inesistenza, avrei, con questa sola scoperta teorica, attuata nella pratica la liberazione più grande che la storia dell'uomo possa immaginare: ben più grande di quella che esaltò Empedocle agrigentino e Lucrezio.

 

   La formula è inequivocabilmente dubitativa, e conduce ad una fase di angoscia:

 

   Poiché il Tempo è da noi supposto, e non è, che cosa dunque determina e limita a noi, cosidetti mortali, quel tratto di spazio che va tra la supposizione della nascita e la supposizione della morte? Noi, che viviamo, che mai stiamo facendo? (…) Noi fuggiamo? – mi domandai – Ma essenziale al fuggire è una certa relativa brevità del tempo. La fuga è concetto che deriva da quello del tempo. Dunque anch'essa è inesistente. Questo nostro fuggire è un inganno?

 

   Attenzione: il tempo sta sparendo dall'orizzonte filosofico bontempelliano, poiché il suo creatore – l'uomo – inizia a vederlo sottodimensionato a sé, conseguenza di un autoinganno, di un fraintendimento psichico. Ma ecco la svolta, la sorpresa, spuntare dalle ultime pagine del racconto, che narra in termini reali il viaggio dell'autore (protagonista e voce narrante), assieme ad un altro uomo sconosciuto, che lo guida attraverso un'immotivata fuga per boschi, campagne e città. Una fuga dal Tempo che,

 

   Se esistesse (…) e sapesse ch'io lo nego, forse si vendicherebbe.

 

   E la definitiva consacrazione di Kronos avviene in simultanea con quella di Anthropos:

 

   Intesi dunque che solo nel tempo ero, e per esso; e m'aggrappai al Tempo, unica ormai ragione del mio persistere.

 

   Ciò segna anche il ritorno del protagonista alle condizioni di partenza (la lettura della Teologia di Proclo), unitamente a quello che ci sembra essere una rinnovata, riconquistata anzi, serenità. Al filosofo neoplatonico Proclo, perciò, spetta il corollario, che Bontempelli pone per metà come premessa al viaggio e per metà come soluzione per il quesito generante l'esperienza descritta:

 

   Tutte le cose che esistono in qualche modo, risultano del limite e dell'infinito, per mezzo del primo Ente. (Premessa);

 

   (…) Ma tutti gli esseri viventi sono motori di se stessi, mediante la prima vita, e tutti gli esseri conoscenti partecipano della cognizione, mercé la prima mente. (Conclusione).

 

   Tra le due parti si sviluppa la fuga e, previa magnanimità del Tempo Ritrovato, il protagonista guarisce dall'empietà, riconoscendosi uomo nel tempo.

   Fin qui il racconto del '21: una pacificazione; una pax temporalis che, nel '27, Gente nel tempo annienterà, con le sue ultime fulminanti battute, decretanti la follia per l'unico personaggio rimasto vivo. Vediamo anche questo.

   Il romanzo Gente nel tempo è la storia di una famiglia che, a partire dal giorno in cui morì la madre paterna, soffre di una maledizione seriale: ogni cinque anni un suo membro deve morire. Il dialogo che riporteremo è tenuto fra Dirce Medici (la cui sorella Nora si è suicidata il giorno stesso per concedere a lei cinque anni in più di vita) e l'abate Clementi, la sola persona che avesse capito l'atroce gioco di quel destino anomalo (anticipato larvatamente dalla nonna, la Grande Vecchia, in punto di morte: Tutto è regola, nella vita e nella morte):

 

   - Hai vinto, Dirce?

   - Nora ha voluto salvarmi.

   - Ti ha dato l'eternità?

   - Cinque anni, abate Clementi, cinque anni.

   - Regalo orrendo: non importa morire, importa non sapere quando. L'ignoranza è la giovinezza. Di mano in mano che uno un poco lo sa, lui se ne va. La vita è essere incerti, Dirce, la vita è non sapere, non sapere né quando né dove uno va, Dirce.

   - Ma io credevo, in Dio, abate Clementi.

   - Anche i più credenti non vogliono morire, dunque un poco dubitano. La vita è dubitare.

   - Ma allora Nora, dov'è Nora?

   - Nessuno lo sa. La vita è andarsene.

 

   La vita è andarsene, e, visto che Nora è morta, l'abate è in aperta contraddizione: se n'è andata e basta… nessuno sa dove; dunque Nora non è morta, e la famiglia Medici, in quanto consapevole di quando la morte giungerà, non è viva neanche mentre vive: la vita risiede nel non saper altro che tutto quanto riguardi la vita stessa, il viaggio. La famiglia Medici oscilla fra una morte in vita ed una vita nella morte, diversamente da tutti gli altri, che rimangono compresi, inglobati, fagocitati dalla vita, ovvero dalla salvifica ignoranza. Nora è sparita agli occhi di chi ne sta parlando (l'autore, intendiamo), poiché era stata partorita dalla morte, cioè era nata già morta in un'illusione di esistenza terrena (e Samuel Beckett, decenni dopo, baserà Aspettando Godot su una piattaforma concettuale identica a questa, ci sembra).

   Nora e gli altri Medici, dunque, non sono ignoranti, né incerti, bensì sapienti: non appartengono al mondo dei fenomeni e delle scelte, delle ipotesi e del fideismo. Sono compiuti. L'umanità appartiene al Tempo e la bacchetta magica per escluderla da esso la hanno solamente i mitografi, allo scopo di dimostrare che il Tempo non ha senso, è incomprensibile. La differenza, però, con Ultimo viaggio, è che Gente nel tempo considera il Tempo come un monarca assoluto, sincretico con Dio, con la Morte, ma non con l'uomo. Allora come la mettiamo?

   Gli attimi vengono creati dall'uomo che, grazie ad essi, sa di essere in vita, ma all'interno del Tempo stesso si annida anche l'ultimo attimo, che si chiama Morte e che sempre arriva. La consapevolezza del tempo umano è la consapevolezza della condizione umana; nel non-luogo, invece, l'attimo fatale porta l'uomo: nello scoccare di quell'attimo un uomo muore.

Quell'attimo, da che parte starebbe: è o non è nel Tempo?

   Sembra che l'autore, tramite l'abate, ponga la morte all'interno della vita: la vita è andarsene o la morte è andarsene? E tutto è regola anche nella vita.

Dunque, potremmo pensare che vita e morte siano la medesima cosa per tutti, non solamente per l'assurdo, per il paradosso famiglia Medici. L'umanità è la famiglia Medici che se ne va eternamente, in luoghi imponderabili, ma situati nel Tempo. Qual'è la sintesi, signor Bontempelli? Forse che l'uomo, nascendo, decide la propria morte, e ricupera la vita solo per mezzo della catarsi, della riappropriazione dell'ego:

 

   - Chi siete?

   - Sono io – risposi.

   - Non basta.

   - Deve bastare! – proclamai con risolutezza. Egli insistette:

   - Ditemi le vostre generalità.

   - Sono io, – ripetei – non abito in nessun luogo, non possiedo nulla, non sono di nessuno.

   ( Da Nuove scoperte, novella di Viaggi e scoperte).

 

   La morte rimane umana, temporale. L'ego la contiene nel tempo, poiché esso viaggia con il tempo, gli è affiancato: l'uomo, perciò, usando la sua magia, è divino nella sua ignoranza dei trapassi, purché abbia consapevolezza dell'ego. Se ne deduce che la morte non dovrebbe costituire un problema umano, essendo un interrogativo insolubile perché fittizio e basta. Però tutto cambia e niente ritorna, dice l'autore altrove (non citeremo dove per mancanza di spazio)…

   E così si va (un poco forzatamente, invero) a concludere queste riflessioni: pensando, dopotutto, che propriamente nelle contraddizioni risieda la sua poesia che spiega la vita, come enunciato da Carlo Bo… ed anche in ironica attesa di ulteriori studi su un caso letterario che, per noi, resta pure un caso umano irrisolvibile. Lo è, soprattutto se nessuno lo vuole o lo può leggere, per poco che sia leggere Massimo Bontempelli al fine di conoscere Massimo Bontempelli. D'altronde, oggi conoscere equivale a divertirsi, per via dello svago a cui sarebbe destinata la narrativa, la poesia… il nostro tempo. Cosa pretenderemmo di più?

 

                                                                                                         

Bibliografia essenziale delle opere (si sono evitate le edizioni quasi introvabili, cioè pressoché tutte le prime)

 

Romanzi, novellistica e prose varie (compresi i saggi)

 

La vita intensa – romanzo dei romanzi, Milano, Mondadori, 1925²

La vita operosa – nuovi racconti ed avventure, Milano, Mondadori, 1925²

Viaggi e scoperte – ultime avventure, Milano, Mondadori, 1925²

La scacchiera davanti allo specchio, Milano, Mondadori, 1925² (insieme con la seguente)

Eva ultima – romanzo, Milano, Mondadori, 1925² (insieme con la precedente)

Donna nel sole ed altri idilli, Milano, Mondadori, 1928

Il figlio di due madri, Roma, Sapientia, 1931³

L'Avventura Novecentista, Firenze, Vallecchi, 1938

Giro del sole, Milano, Mondadori, 1941

Gente nel tempo, (nella collana La Medusa degli Italiani), Milano, Mondadori, 1946²

L'amante fedele, Milano, Mondadori, 1953

Opere, (nella collana I Meridiani), Milano, Mondadori, 1991³

 

Teatro

 

Nostra dea – commedia, Milano, Mondadori, 1925

Minnie la candida, Milano, Mondadori, 1929

 

Scritti su Massimo Bontempelli consultati

 

Adriano Tilgher, Ricognizioni, Roma, Libreria di Scienze e Lettere, 1924

Lorenzo Giusso,  Il viandante e le statue, Milano, Corbaccio, 1929

Alfredo Gargiulo, in Letteratura italiana del novecento, Firenze, Le Monnier, 1943²

Carlo Bo, Bontempelli, Padova, Cedam, 1943

Adriano Seroni, Avventura e mito in Bontempelli, in Ragioni critiche, Firenze, Vallecchi, 1944

Goffredo Bellonci, Prosa italiana del Novecento, in Beltempo.Almanacco dellle lettere e delle arti, Roma, La cometa, 1940

Fernando Tempesti, Bontempelli (collana Il castoro), Firenze, La Nuova Italia, 1974

Giuseppe De Robertis, recensione di Giro del sole in Altro novecento, Firenze, Le Monnier, 1962

 

 
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