Una perfetta
stanza di ospedale di Yoko Ogawa, Adelphi
Il fascino inquietante di
Yoko Ogawa
Dotata di un fascino letterario devastante, tanto che c'è chi l'ha definita
«pericolosa perché ha inventato le scrittura-coltello, visto che nel leggere le
sue opere si prova un piacere doloroso», Yoko Ogawa,
di cui già avevamo apprezzato l'originalità nell'«Anulare»un libro di breve
respiro, ma che inchioda il lettore alla pagina, invischiandolo dentro
l'elusiva ragnatela di malate ossessioni, ora ci propone, nuovamente munita del
suo acuminato bisturi, ancora due storie di dolore – vissute in una dimensione
anomala, quasi in controluce - in «Una perfetta stanza di ospedale» (Adelphi,
pp.128, euro 10, traduzione di Massimiliano Matteri e
Matake Yumiko).
Nel primo bellissimo racconto, incontriamo una sorella affranta dalla malattia
del giovane fratello che va spegnendosi con la grazia trasparente di una
corolla rimasta senza linfa. L'attaccamento viscerale al fratello trova
giustificazione nel passato disaffettivo della madre
dei due ragazzi ormai scomparsa, colpita da una degenerazione psichica che
l'aveva indotta a non avere più cura della pulizia della casa e soprattutto nell' indifferenza di un marito troppo indaffarato con cui
il dialogo si è fatto afasico, improntato a non condivisione di pensieri ed
interessi.
«Ogni volta che penso a mio fratello – esordisce la protagonista – il cuore mi
sanguina come una melagrana scoppiata» ed è proprio per cercare di farsi
coraggio ed elaborare il lutto che decide di rifugiarsi metaforicamente «nel
ricordo della sua quieta camera di ospedale», in quel «quel luogo perfettamente
ripulito dalla sporcizia della vita». Commovente il cammino dell'affetto sempre
più intenso, fiorito tra fratello e sorella, descritto giorno dopo giorno con
penna minuziosa, tanto da costituire un legame di inconsueta e toccante
intimità.
La stanza d'ospedale, pagina dopo pagina, si fa metafora di nitore assoluto,
capace di anestetizzare il dolore con la sua immacolata purezza. Nel disegno
trova spazio anche uno strano sentimento per un medico di rara umanità, atto a
dare un po' di conforto – in maniera anch'essa fuori dai canoni – in perfetto
stile Yoko Ogawa – alla disperazione della sorella
che ora si sentirà più che mai «orfana del fratello».
Nel secondo racconto « Quando la farfalla si sbriciolò» abbiamo ancora la
figura di una giovane costretta a portare la nonna ormai «chiusa in un mondo
tutto suo», perché affetta da demenza senile, in un istituto per anziani. Anche
questa seconda protagonista della narrazione è vulnerata da un cattivo rapporto
con la madre, costellato di abbandoni e tradimenti. La vita sembra quindi esser
divenuta un'autodisciplina, un'ideale nicchia entro chiudersi per contrastare
il dolore.
Certamente non ha nulla di occidentale, di vicino alla
nostra mentalità il rapporto con la sofferenza espresso dalla scrittrice
giapponese che tanti premi e successo va mietendo nella sua patria.
Nella sua scrittura non troviamo isterie, plateali esplosioni di rabbia
nell'affrontare il tema del lutto e della perdita di persone care: un fratello
o una nonna che, a suo tempo, ha sostituito la madre. E questo avviene
soprattutto a causa del diverso concetto della vita e della morte
antitetico nella cultura scintoista rispetto alla nostra, fondata su una
trasmigrazione e addirittura di una mutata forma di vita.
Noi occidentali non siamo abituati a un rapporto così pacato e minimale nei
confronti della perdita di una persona cara e la scrittura della giovane
giapponese c'impartisce un esempio di sofferenza rarefatta, composta, mirata in
filigrana, un' assenza di melodrammatico dramma che
per noi si fa imperscutabile mistero.
Grazia Giordani
www.graziagiordani.it